sabato 13 marzo 2010

Comunità cristiane per il XXI secolo

Mi sono sempre occupato dell’ecclesiologia nel suo aspetto teorico-teologico, qualcosa di necessario. Ma principalmente è stato oggetto del mio studio il passo seguente di tutta la riflessione: renderla carne, metterla in pratica, realizzarla in mezzo alla realtà delle chiese.

Due articoli, una conversazione e la preoccupazione poco fa segnalata mi suggeriscono alcune riflessioni sul fatto comunitario cristiano nel suo aspetto liturgico.

In uno degli articoli che ho letto questa settimana si segnalava un fenomeno che sta sperimentando l’Unione Battista Britannica. Si tratta del considerevole aumento della frequenza ai suoi culti in rapporto alla diminuzione dei membri di chiesa. L’autore dell’articolo commentava la reticenza delle persone ad assumere impegni con le chiese locali.

Il secondo articolo faceva riferimento alla massiccia uscita dei cristiani latinoamericani dalle chiese istituzionali statunitensi per formare ciò che l’autore denomina “chiese organiche”. Gruppi di cristiani che si riuniscono nelle case senza le strutture proprie delle comunità istituzionali, per condividere le loro differenti esperienze di fede, la lettura delle Scritture e la Cena del Signore. Sono incontri, a mio modo di vedere, dove la conversazione prende il posto del discorso-sermone.

La conversazione che ho menzionato aveva a che vedere con le diverse comprensioni della liturgia da plasmare nelle celebrazioni domenicali cristiane. Parlavamo specialmente della formalità e dell’informalità di ordine culturale, della musica comunitaria utilizzata. Mentre alcuni cristiani sentono la mancanza dell’utilizzo dell’innologia classica e della formalità durante il culto, altri apprezzano quello che è stato definito “tempo di lode” e gli interventi estemporanei durante la celebrazione.

Quindi, dobbiamo dire che la comunità cristiana si deve reinventare costantemente nella sua riflessione storica. Lo ha sempre fatto, e deve continuare a farlo. Questo reinventarsi deve essere pensato dalla premessa che ci offre Gesù quando affermò che “l'uomo non è stato creato per il sabato”, ma piuttosto il contrario. Da questo punto dobbiamo prestare attenzione ai cambiamenti sociali e di usanze che stanno avvenendo nelle nostre società e nelle persone che ne fanno parte, in modo che la realtà cristiana sia rilevante e conforme alle sane aspettative che il Vangelo solleva.

Desideriamo raggiungere tutti con il Vangelo e perciò, nella maniera paolina, la comunità cristiana essendo libera da tutti, si farà serva di tutti – nella sua determinazione storica – per guadagnarne il maggior numero (1 Cor. 9:19). Per questo, ritengo che le nostre comunità, ben lungi ormai dal concetto antico di parrocchia, dovrebbero plasmare le proprie attività di incontro e di celebrazione su tre aspetti basilari.

Il primo aspetto ha a che vedere con le celebrazioni formali. Ciò significa che la comunità cristiana deve offrire celebrazioni la cui liturgia sia formale per supplire ai bisogni di quei cristiani che sono confortati da questi modelli liturgici (es.: liturgia riformata / innologia classica).

Il secondo aspetto è in relazione con quello che io definisco “liturgia conversazionale”. Cioè una liturgia che essendo formale non è formalista. Una liturgia che concede spazio alla conversazione e che non reprime gli estemporanei. Che utilizza una innologia contemporanea, ma che protegge i suoi contenuti dalla mediocrità di molti dei così mal chiamati “coretti” attuali, nei quali l’intimismo individualista e la fuga dalla realtà, attraverso i loro testi, sono frequenti.

Il terzo aspetto che propongo è lasciare spazio (libero da critica e proselitismo) nella comunità a coloro che, senza essere membri ufficiali o attivi, desiderano frequentare, a volte in modo aleatorio, le celebrazioni e le attività comunitarie.

Le comunità cristiane, senza rinunciare alle loro rispettive identità, devono optare per forme miste di celebrazione e di incontro con il preciso obiettivo di arrivare alle necessità esistenziali di tutti i loro membri e non. Delle comunità che siano spazi in cui tutti i cristiani si accolgono gli uni gli altri, non per contendere sopra opinioni (Rom. 14:1), ma per accompagnarsi reciprocamente nella crescita come persone.

La missione più caratteristica della chiesa è essere assemblea di incontro fraterno in cui i suoi partecipanti recuperano forse per realizzare la propria testimonianza cristiana nelle loro scuole, nei luoghi di lavoro, cristiani e non, sindacati, associazioni di vicini, movimenti sociali, partiti … Da qui l’importanza che le nostre celebrazioni liturgiche e gli spazi di incontro rispondano a tutte le sensibilità esistenti tra i cristiani e le cristiane del XXI secolo.

Ignacio Simal Camps


Da: Lupa Protestante – venerdì 12 marzo 2010
Ignacio Simal, Comunidades cristianas para el siglo XXI. Traduzione di Patrizia Tortora

sabato 23 gennaio 2010

Segnali di emersione - 4

I programmi delle chiese sono orientati a fare emergere ministeri locali valorizzando doti e talenti personali e puntando alla formazione di “quadri” o “intellettuali organici” (qualche volta persino sorvolando sui doni spirituali e la loro tenuta nel tempo). I membri sono quindi risorse per il lavoro della chiesa.

Il “genio” della Riforma protestante fu invece proprio quello di trasformare i laici in “preti”. La dottrina del “sacerdozio universale”, infatti, non fu altro che il tentativo di rendere ogni credente un sacerdote, ossia, non un parroco che ha responsabilità pastorali nella chiesa, ma un sacerdote in grado di mettere in relazione una persona con Dio.

Questa funzione viene riscoperta e ripristinata nelle chiese emergenti. I programmi delle chiese valorizzano soprattutto i doni spirituali e puntano alla formazione di missionari. I membri sono perciò risorse per la missione della chiesa.

sabato 9 gennaio 2010

UNA NECESSARIA MISTICA CRISTIANA (Enric Capò)

Karl Rahner, il noto teologo cattolico, in un’occasione disse che il cristianesimo sarà mistico o non sarà. In questo bisognerebbe dargli completamente ragione. Non credo che la religione cristiana, così come la conosciamo, abbia molto futuro. Sta toccando il fondo. Se dobbiamo giudicarla per l’esperienza europea, dobbiamo riconoscere che ha fatto tutto il possibile per screditarsi e ci è riuscita, sia per quello che si riferisce alle chiese cattolica ortodossa, sia per le chiese evangeliche. Nei circoli più informati della nostra società, non ha nessuna credibilità. E nemmeno tra la gente. E’ rimasta un’inerzia religiosa, rimangono i nostalgici, rimangono quelli che non hanno trovato un’altra forma di vita interiore che quella che forniva la chiesa e costituivano la sua ragione di essere. Restano gli stralci del grande manto religioso che ha coperto l’Europa, fanatici, fondamentalisti, settari... Rimangono anche i grandi edifici, le magnifiche manifestazioni religiose, i frammenti del naufragio...

Affermare questo non significa che tutto è perso e che la fede cristiana non possa dare risposta ai grandi interrogativi della vita, né che la distruzione dell’edificio religioso implichi la sparizione della fede e della testimonianza cristiana. Tra coloro che rimangono nella chiesa ci sono anche, grazie a Dio, i cristiani che ancora mantengono le lampade accese e danno testimonianza di una fede che, sebbene sia spenta nella religiosità popolare, fiorisce ancora e permane nel cuore e nella coscienza di quelli che, in Cristo, hanno trovato la vera via della vita. Però, perfino tra questi, spesso, la formalità depaupera l’esperienza della fede.

Tutti i credenti che sono arrivati a Dio, lo hanno fatto per strade diverse. Alcuni lo hanno fatto per una convinzione intellettuale, altri per affinità religiosa, altri per principi morali. In questo percorso sono intervenuti la mente, il cuore o la coscienza. E’ stata, senza dubbio, un’esperienza positiva e nella sua pratica hanno trovato ricchezza spirituale per le proprie vite. Però, non per tutti questa esperienza di Dio è stata globale, cioè un’esperienza che abbraccia tutto e coinvolge tutto. La fede per molti è rimasta ai margini, nella religiosità, nelle norme, nella moralità, nei riti, nelle usanze... Si limitano ad essere protestanti, cattolici o pentecostali. Non sono andati molto più in là, e ci sono molti che oggi stanno cercando altre esperienze interiori nelle quali trovare la pienezza a cui l’essere umano aspira. E, spesso, lo fanno nei circoli esoterici di altre culture che sono giunte ad esperienze mistiche di grande trascendenza. La mistica è un’esperienza comune a tutte le religioni, ma non sempre trova le strade giuste per esprimersi con chiarezza.

Tra noi evangelici, la mistica non è ben accolta. L’abbiamo associata alle esperienze straordinarie ed irraggiungibili dei grandi mistici spagnoli e ci sembra che sia fuori dalla nostra portata, per il suo carattere straordinario e per non essersi adattata ai parametri della dottrina comunemente accettata. Ma nessuna di queste due caratteristiche deve intimorirci. La fede cristiana si muove sul terreno di ciò che è straordinario, incomprensibile, fantastico e, spesso, anche i grandi credenti, nell’esprimersi con chiarezza, hanno rasentato l’eresia. Pertanto, la mistica è un’opzione cristiana che deve entrare pienamente nella nostra vita di fede. Sicuramente non ci sarà possibile raggiungere le cime che ci descrivono coloro che chiamiamo mistici, però c’è un altro livello, quello della vita di tutti i giorni, in cui l’esperienza mistica deve trovare posto. Le cose ci andranno male se nella nostra vita di fede ci conformeremo ad una convinzione intellettuale, ad una sottomissione alle norme religiose o ad una scelta per ragioni morali. Se non arriviamo ad un altro livello, alla scoperta della presenza di Dio in noi ed alla possibilità della relazione e della comunione con Lui, resteremo ai limiti del cristianesimo, nei suoi postulati puramente religiosi. Resteremo dentro i limiti di ciò che chiamiamo religione cristiana, che è giusta e buona, ma non sufficiente. Perderemo la ragione principale dell’essere cristiani: essere una cosa sola con Cristo e vivere la fede al livello dell’esperienza di Dio.

Il grande mistico che è stato l’apostolo Paolo è un esempio di come vivere la vita cristiana. In Paolo si trova la mistica come esperienza precisa, così come potremmo trovarla in San Giovanni della Croce o in Teresa d’Avila, e la mistica come esperienza quotidiana, di tutti i giorni. Sarà difficile seguirlo nel suo viaggio al terzo cielo (2 Cor. 12:2), ma è gratificante accompagnarlo nel suo viaggio verso la vita interiore (Rom. 7:7) in cui giunge ad una tale comunione con Dio che non gli è più possibile distinguere tra la sua vita e quella di Cristo in lui: “non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me” (Gal. 2:20). E’ una mistica di tutti i giorni che ispirò il pensiero e tutta la vita dell’apostolo. La sua vita e la sua comunicazione della fede sono impregnate dall’esperienza della sua conversione e dalla rivelazione che ricevette (Gal. 1:12) durante il suo soggiorno nel deserto dell’Arabia. Giunse ad una tale intimità con Dio da affermare di avere la mente di Cristo e questa è una possibilità aperta a tutti i credenti (1 Cor. 2:16).

Se non si realizza questa esperienza, è molto dubbioso che possiamo parlare di cristiani nel senso profondo del termine, benché accettabile nel suo significato sociologico. Essere cristiano implica un’unione mistica del credente con Cristo. Si tratta di un incontro con Dio, ma non all’esterno, dove “oggettiviamo” tutto, ma nella vita interiore. Non troveremo Dio attraverso le cinque strade che propone Tommaso D’Aquino per provare la sua esistenza, né nelle speculazioni filosofiche di Anselmo di Canterbury, né nelle grandi cerimonie ecclesiastiche. Non c’è un Dio lì fuori che possa essere trovato dalla ragione umana. C’è un Dio, il nostro Dio, nella profondità della vita, lì dove troviamo noi stessi e, facendolo, ci vediamo nello specchio di Dio.

Cercare Dio implica un viaggio nella parte interiore della vita, nelle sue profondità, dove non ci sono finzioni né scuse, dove troviamo l’autenticità della vita ed in essa quello che realmente siamo: i nostri limiti, i nostri errori, la nostra piccolezza e, al tempo stesso, la nostra grandezza come esseri umani pensati da Dio, amati da Lui e da Lui riscattati. E’ lì, nel più profondo della vita, dove recuperiamo la nostra autostima quando ci sentiamo confrontati con la realtà dell’amore di Dio. La fede non è un credo, né una dottrina, né una pratica, ma un’esperienza di ciò che è trascendentale, del Dio che sta nel fondo della vita, che ci si è manifestato in Cristo e ci invita ad una vita di comunione e di amore. Una comunione che ci trasforma e ci conduce ad una vita nuova, quella dell’amore verso tutti gli uomini, specialmente verso quelli che sono vicini e verso i più piccoli, gli emarginati e gli oppressi del nostro mondo.

L’unione mistica del credente con Cristo è all’origine della pace interiore, della gioia permanente, della vita rinnovata. Non è un atteggiamento di attesa davanti a ciò che ci accadrà nel futuro, né una chiamata alla pazienza nella speranza della realizzazione del regno di Dio. E’ un presente pieno di luce e di gioia. Per chi vive in Cristo, “le cose vecchie sono passate e sono diventate nuove” (2 Cor. 5:17). Vive la nuova realtà del regno di Dio, che non è solo speranza del futuro, ma una promessa ed una realtà del presente. Paolo ci dice che “se speriamo in Cristo per questa vita soltanto, siamo i più miserabili degli uomini” (1 Cor. 15:19), ma è anche vero il contrario: chi spera in Cristo solo per l’altra vita si perde ciò che di più prezioso c’è nel presente.

Chi vive in modo autentico l’unione mistica con Dio, gode di una vita di pienezza. Non ci sono più tenebre né timori. La morte ed il sepolcro hanno perso il loro orrore. Ha sperimentato la nuova creazione in Cristo e nella sua prospettiva del futuro, non c’è nessuna condanna, ciò non significa che sia esente dai mali di questo mondo, ma che si trova nelle mani di Cristo e che Lui ha il controllo della sua vita. Forse non vivrà momenti di esaltazione religiosa, né esperienze straordinarie di Dio, ma questo non è importante. La cosa fondamentale è essersi sintonizzato con Dio e vivere l’esperienza di Dio come un’esperienza quotidiana, rinnovata ogni mattina, vissuta nella gioia della salvezza di Colui che si manifesta come l’Amore: Dio. Naturalmente, il futuro del cristianesimo in Europa e nel mondo è nelle mani di Dio, però lo ha messo anche nelle mani di quei suoi amici di tutti i giorni, che vivono in comunione con Lui e diffondono in questo mondo la sua luce.

Enric Capó (Lupa protestante, sabato 2 gennaio 2010) - http://www.lupaprotestante.com/

Traduzione dallo Spagnolo di Patrizia Tortora

mercoledì 6 gennaio 2010

Segnali di emergenza - 3

I programmi di formazione delle chiese sono orientati a formare membri di chiesa (il pacchetto per i nuovi membri della chiesa di Roma Teatro Valle, ad esempio, è composto dal regolamento, dalla tessera delle contribuzioni e dall’elenco telefonico dei membri). Il messaggio è molto chiaro: seguire Gesù non è altro che essere un buon membro di chiesa, discepolo = membro.
Le chiese sempre più cominciano a porsi il problema di come formare nuovi discepoli di Gesù. Il primo colloquio pastorale con i nuovi membri riguarda sempre più il “contratto” nel quale i nuovi membri esprimono che cosa vorrebbero vedere accadere nella loro vita diventando membri della chiesa, rispetto allo sviluppo personale e spirituale. E’ in questa occasione che il pastore o il Consiglio spiega la formazione e la disciplina spirituale della comunità.
Il fuoco della formazione non è più sulla frequenza alle riunioni della chiesa, ma sulle esperienze di missione nei propri luoghi di vita.