venerdì 12 dicembre 2008

Giovanni 13:(2-11)12-17 - La disciplina del servizio

La parola greca usata qui dal vangelo di Giovanni per parlare di “servo” è δουλος, che in verità significa schiavo, e non servo (διάκονος). E c’è una bella differenza tra le due parole: una si riferisce al servitore dipendente di un datore di lavoro che perciò riceve un salario per il suo servizio, mentre la seconda si riferisce allo schiavo, che perciò è proprietà del suo padrone. Quindi, noi parliamo di “servizio” in quanto autorizzati dal fatto che il fenomeno della schiavitù è scomparso dalla nostra società occidentale e dalle moderne traduzioni della Bibbia, nondimeno, nel suo insegnamento, Gesù fa riferimento alla schiavitù e non alla servitù.
Gesù non dice di se stesso di essere uno schiavo, nondimeno ci dice che egli, consapevolmente, ha servito come uno schiavo: «Voi mi chiamate Maestro e Signore; e dite bene, perché lo sono. Se dunque io, che sono il Signore e il Maestro, vi ho lavato i piedi, anche voi dovete lavare i piedi gli uni agli altri.» Lo stesso chiede di fare ai suoi discepoli: «Infatti vi ho dato un esempio, affinché anche voi facciate come vi ho fatto io.» Quindi, i credenti non sono schiavi, anzi, sono liberi signori su se stessi e sul mondo, eppure, essi servono il prossimo come se fossero schiavi.

Lasciatemi spiegare meglio questo importante concetto, che comprende la servitù cristiana come vero effetto della libertà cristiana.
La libertà cristiana è una libertà interiore creata dalla grazia; per cui noi credenti siamo persone perfettamente libere e non siamo schiavi di nessun uomo, se non di Cristo. Ma a questa libertà cristiana dell’uomo interiore, si affianca la servitù dell’uomo esteriore: il credente si sottopone umilmente a tutto e a tutti, non per obbedire alla legge delle opere, ma nella gioia della libertà; si può fare esteriormente schiavo perché è interiormente libero!

Quindi, 1) il cristiano è completamente libero, signore di tutte le cose, non sottoposto a nessuno; e nello stesso tempo 2) è il più sollecito servo di tutti, sottoposto a tutti.

L’apostolo Paolo scrisse: «Pur essendo libero da tutti, mi sono fatto servo di tutti.» e Lutero diceva che l’amore «è per sua natura pronto al servizio e sollecito verso ciò che ama». Il cristiano è quindi libero dal peccato e servo dell’amore. L’amore è il vero limite della libertà.

La tradizione della chiesa ha posto il servizio tra le discipline spirituali esteriori dando per scontato che il servizio sia qualcosa di fondamentale e di irrinunciabile per la vita spirituale di ogni credente e che deve essere imparato, perché non è naturale farsi servi degli altri. E’ esteriore perché è una disciplina che riguarda le relazioni umane.

Nel considerare il ministero di Gesù nel suo complesso, salta agli occhi quanta importanza avessero per lui i bisogni delle persone. Sfamare gli affamati, guarire i malati, liberare i posseduti. Gesù mangiò con gli emarginati; liberò i suoi discepoli dalla paura calmando le acque; era accessibile a tutti, anche ai bambini e ai matti; incontrava folle e individui. Se si togliessero questi racconti dai vangeli rimarrebbe solo il racconto della Passione (sempreché non si consideri anche la Passione di Gesù un atto di servitù).

Eppure, per chi legge i vangeli, è chiaro che non erano i bisogni della gente che determinavano l’azione di Gesù. Non erano né le folle, né gli individui; né i discepoli, né le autorità religiose. Ciò che determinava l’azione di Gesù era la volontà di Dio. Gesù non guarì tutti gli ammalati, non liberò tutti i posseduti, non sfamò tutti gli affamati e non ridiede la vita a tutti quelli che erano nel dolore. Le sue azioni erano prima di tutto segni del regno di Dio e non panacee universali. Gesù sentiva una profonda responsabilità verso quel patrimonio prezioso che è un individuo.


Avendo vissuto per tre anni davanti a loro come un servo, Gesù chiama i suoi discepoli a fare lo stesso: «Se dunque io, che sono il Signore e il Maestro, vi ho lavato i piedi, anche voi dovete lavare i piedi gli uni agli altri. Infatti vi ho dato un esempio, affinché anche voi facciate come vi ho fatto io

Il nostro problema è che questa parola è troppo difficile da ubbidire.

Avremmo preferito che Gesù ci avesse chiesto di rinnegare padre e madre, di rinunciare ad ogni ricchezza, di dare la nostra vita al martirio, piuttosto che prendere un asciugamano e lavare i piedi a qualcuno. Perché l’ubbidienza radicale in qualche modo ci dà il brivido dell’avventura e persino il martirio ci dà la speranza della gloria, ci sono delle remunerazioni per queste cose! Ma il servizio ci chiede di fare l’esperienza di morire ogni giorno a noi stessi, senza contraccambio. Nel servizio chi conta non sono io, ma l’altro. Io esisto per l’altro e non per me stesso. Questo è davvero troppo!

Ma il servizio dà anche una grande libertà, quella di poter dire No! ai giochi di potere del mondo. Il servizio abolisce il bisogno di arrivare sempre primi o, almeno, di stabilire "l’ordine di beccata" della vita. Del resto, il servizio non significa neppure l’abbandono di ogni autorità. Gesù non fece altro che servire, ma la sua autorevolezza ne crebbe, non diminuì. Gesù fece derivare la sua autorità non da qualche carica sociale o religiosa, ma dall’autorevolezza con cui svolgeva la sua funzione. Anche per noi, il servizio non punta ad abbandonare l’autorità, ma ad ottenerne una che viene dalla vita vissuta, dall’integrità, dalla verità, dalla sincerità. L’autorità che conta nella comunità non deriva da un titolo, ma da un asciugamano.

domenica 7 dicembre 2008

Giacomo 4:3 - La disciplina della preghiera


«Domandate e non ricevete, perché domandate male per spendere nei vostripiaceri.» Questo testo parla di PREGHIERE NON RISPOSTE. C. S. Lewis diceva che Dio ascolta tutte le preghiere, ma non risponde a tutte; e questo per il bene maggiore nostro e di tutto l’universo. Questa analisi si applica benissimo al testo di Giacomo.


Giacomo scrive queste parole all’inizio della terza parte della sua lettera, quella dove testimonia della provvidenza di Dio. In questa parte della lettera Giacomo affronta il malessere della comunità alla quale scrive: le false speranze. I credenti ai quali si rivolge sembrano affetti da una illusione cronica: che Dio li assecondi in qualunque azione.

Giacomo sostiene che quando le nostre azioni sono dettate dalle proprie passioni e dai piaceri peccaminosi, esse portano con sé il proprio imbarbarimento, la propria degradazione e la propria distruzione. La ragione è che esse scaturiscono dal proprio interesse personale e non dal sentimento di giustizia. Questi credenti nutrono la falsa speranza che Dio stia dalla loro parte per partito preso; Giacomo dice che questa è una pia illusione, una falsa speranza. L’antidoto che egli offre a questi credenti è l’umiltà. Cioè c’è bisogno di un cambiamento nella vita, negli atteggiamenti e nel carattere dei credenti che deve essere più adeguato alla fede che professano.
E’ all’interno di questo ragionamento che Giacomo scrive il verso che riguarda la preghiera. Non ci si deve meravigliare se Dio non risponde alle preghiere di costoro, perché anche la motivazione della preghiera è impura e peccaminosa come la motivazione delle loro azioni. Essi pregano per ottenere ciò che hanno progettato nel loro cuore in preda ai propri desideri.
Il problema non è chiedere per se stessi, quello non può essere considerato un peccato o la ricerca del proprio interesse; la preghiera, nella sua essenza, non è altro che richiesta, anche per se stessi (Giacomo stesso, all’inizio della sua lettera, aveva detto che se uno sente di mancare di saggezza di chiederla a Dio, perché egli non gliela avrebbe certamente rifiutata).
Il problema sono le motivazioni che sono alla base della nostra preghiera e quindi in ciò che chiediamo. La preghiera non è né un talismano che opera a favore dei nostri fini privati; né la pretesa di santificare i nostri desideri più egoistici. Un nostro desiderio egoistico rimane tale e non c’è nessuna preghiera in grado di farlo diventare disinteressato, e un fine personale non diventerà mai un fine superiore con la preghiera. La preghiera funziona se le nostre aspirazioni personali sono sottomesse a propositi più alti. Insomma, la preghiera opera quando il nostro cuore è sottomesso alla volontà di Dio e alla sua libertà e quando – anche se tacitamente – la preghiera è preceduta da un “se è secondo la tua volontà”. Quindi Giacomo può in tutta tranquillità dire: “le vostre preghiere non vengono risposte perché vengono fatte con lo spirito sbagliato e per le motivazioni contrarie a ciò che Dio ci ha rivelato di sé.

La preghiera trasforma. E qui è il punto. Pregare significa cambiare. La preghiera è l’autostrada della trasformazione. Il fine della preghiera è la trasformazione della nostra volontà, delle nostre motivazioni, dei nostri fini, dei nostri metodi, del nostro carattere, della nostra personalità, dei nostri pensieri, delle nostre parole e delle nostre azioni, per renderle sempre più simili al Signore. Se non vogliamo cambiare nulla nella nostra vita, prima o poi abbandoneremo la preghiera come nota caratteristica della nostra vita.
La disciplina della preghiera ci catapulta sulla frontiera della vita spirituale, ci introduce in una comunione assidua con il Signore, e ci fa strada nei più profondi e nei più alti percorsi dello spirito umano. Nella preghiera, cominciamo a seguire Dio nei suoi pensieri, a desiderare le cose che lui desidera, ad amare le cose che lui ama, a volere le cose che lui vuole. Progressivamente impariamo a vedere le cose dal suo punto di vista. Questa è la trasformazione.

Come dice Giacomo - che aveva una lunga esperienza di vita con Dio - chiedere in modo giusto nella preghiera significa trasformare le “nostre passioni” in passione per Dio.

lunedì 1 dicembre 2008

N. T. Wright sulla chiesa post-emergente (Con Richard Rohr e Brennan Manning)

Atti 2:37-47 - Visione

L’iniziativa di Dio imperniata su Gesù Cristo è un colossale progetto di redenzione della creazione, della storia e dell’umanità al quale noi partecipiamo attraverso il nostro assenso. Un autore l’ha chiamato: «La divina cospirazione».

Sul testo che abbiamo letto bisogna dire due cose importanti:

la prima è che, dal punto di vista esegetico, si tratta di una transizione letteraria tra il racconto della nascita della prima comunità cristiana a Gerusalemme il giorno di Pentecoste e il racconto della vita e del progresso della chiesa cristiana nello Spirito.

La seconda è che, più che una descrizione storica della vita della chiesa, si tratta di una descrizione ideale della vita della comunità quando è guidata dallo Spirito Santo (Non sto dicendo che quanto è descritto qui sia falso, ma noi sappiamo che Luca stesso, l’autore di Atti, non si nascondeva affatto la realtà del peccato anche nella comunità guidata dallo Spirito. Basta andare al capitolo 5 e leggere l’episodio di Anania e Saffira per capire che neanche allora nella chiesa era tutto rose e fiori).


Queste due notazioni sono molto importanti, perché ci dicono che qui la parola di Dio non vuole semplicemente farci commuovere davanti a tanta santità e farci disperare nel confronto con la nostra realtà; ma il suo intento è di sottolineare, subito dopo la nascita della chiesa cristiana e prima di affrontare il tema del progresso dell’opera dello Spirito Santo nel mondo, che cosa significa essere una chiesa guidata dalla potenza dello Spirito Santo. Insomma, Luca dice: «Una volta scevra, ripulita, di tutta la sua umanità, nella sua essenza la chiesa è questo!».

Quali sono, allora, le caratteristiche che emergono da questa descrizione:

  1. La chiesa è fondata sul fondamento del pentimento e della fede nel Signore Gesù. «Udite queste cose, essi furono compunti nel cuore, e dissero a Pietro e agli altri apostoli: «Fratelli, che dobbiamo fare?» E Pietro a loro: «Ravvedetevi e ciascuno di voi sia battezzato nel nome di Gesù Cristo, per il perdono dei vostri peccati, e voi riceverete il dono dello Spirito Santo.» Noi siamo salvati per fede e non per pentimento, ma è chiaro che la fede biblica scaturisce dal pentimento. Il primo effetto della predicazione non è la fede, ma il pentimento. Una fede che scaturisce dal pentimento è una esperienza esistenziale, riguarda la tua vita; una fede senza il pentimento è una questione intellettuale, riguarda le tue convinzioni. Non si può credere a Gesù e non riconoscere l’abisso che ci separa da Dio. Gesù è colui che ha riempito questo vuoto incolmabile e se tu non riconosci la tua lontananza da Dio, non capisci neanche che cosa ha fatto Gesù per te. Ecco perché c’è un battesimo dopo la conversione, perché devi testimoniare a te stesso, alla chiesa e al mondo che tu sei morto al peccato e risuscitato a nuova vita! Il dono dello Spirito è ciò che testimonia la tua appartenenza a Dio. La tua origine è in Dio e il tuo destino è la vita eterna.

  2. La chiesa è fondata sul fondamento dell’insegnamento degli apostoli. «Ed erano perseveranti nell'ascoltare l'insegnamento degli apostoli». L’insegnamento degli apostoli non era altro che ciò che gli apostoli avevano ascoltato dalla bocca di Gesù. Cioè tutto ciò che poi è stato codificato nel Nuovo Testamento. Quindi “essere perseveranti nell’ascoltare l’insegnamento degli apostoli” non significa altro che essere perseveranti nell’ascolto della parola di Dio scritta e predicata. Quando nel credo affermiamo: «Credo la chiesa una, santa, universale e apostolica», stiamo affermando che una delle caratteristiche intrinseche della chiesa cristiana è di essere legata all’insegnamento apostolico, cioè alla Bibbia. La Bibbia non è solo centrale alla fede dei credenti e della chiesa, ma ne costituisce l’essenza, la chiesa è figlia della Bibbia. Un credente o una chiesa che non è perseverante nella conoscenza della Bibbia perde il senso della chiesa.

  3. La chiesa è una comunità che prega. «Ed erano perseveranti… nelle preghiere.» La preghiera è l’attività fondamentale della vita cristiana. Essa è così centrale nella vita della comunità perché riguarda l’interiorità personale del credente, la relazione con Dio e la dimensione delle relazioni umane. La preghiera è sempre personale e sempre comunitaria.

  4. La chiesa è una comunione fraterna. «Ed erano perseveranti… nella comunione fraterna, nel rompere il pane». La chiesa era una comunità di amici, gente che sedeva spesso a tavola insieme. La parola “comunione”, in greco koinonia, dà l’idea di una stretta associazione, della condivisione di una vita comune, del concepirsi come una sola famiglia che condivide lavoro, sostanze e pasti insieme. Gesù mostrava la sua comunione mangiando con i peccatori. Il “rompere il pane” può anche far riferimento alla Santa Cena, ma anche in questo caso, essa veniva celebrata, all’ebraica, appena prima del comune pasto insieme.

  5. Nella chiesa ci si prende cura gli uni degli altri. «Tutti quelli che credevano stavano insieme e avevano ogni cosa in comune; vendevano le proprietà e i beni, e li distribuivano a tutti, secondo il bisogno di ciascuno.» La ragione che portò a questa scelta comunistica fu: il prendersi cura di tutti i credenti. Davvero la comunità cristiana di Gerusalemme si concepiva come una grande famiglia, che vive del lavoro e delle proprie risorse, che mangia insieme ed insieme si prende cura dei bambini, dei vecchi, delle vedove e fa in modo che a nessuno manchi del necessario per vivere. Questo fa parte delle responsabilità di ogni comunità cristiana. Prendersi cura gli uni degli altri.

  6. La chiesa è una comunità gioiosa. «E ogni giorno andavano assidui e concordi al tempio, rompevano il pane nelle case e prendevano il loro cibo insieme, con gioia e semplicità di cuore, lodando Dio e godendo il favore di tutto il popolo.» Concordia, gioia, semplicità e lode sono la caratteristica dell’opera dello Spirito, e tutti sono attratti dalla gioia e dall’allegria. Non esiste nulla che attragga di più che un gruppo di persone amichevole, gioioso, allegro e accogliente. Ma, come tutti sanno, non ci si può dare gioia da sé stessi senza risultare falsi, esaltati, ridicoli o tutte e tre le cose insieme.

  7. La chiesa è una comunità che cresce. «Il Signore aggiungeva ogni giorno alla loro comunità quelli che venivano salvati.» La crescita della chiesa non fa parte delle attività della chiesa, ma fa parte dell’opera dello Spirito in essa. Tutto il libro di Atti è stato scritto con uno schema ben preciso: la nascita e il progresso della chiesa nel mondo sono opera diretta dello Spirito Santo. Noi dobbiamo quindi abbandonare del tutto l’idea che l’evangelizzazione sia “una delle attività” della chiesa, non è così, l’evangelizzazione è il fine della chiesa. La chiesa non fa altro che questo. Ogni pensiero ragionato, ogni frase pronunciata, ogni azione compiuta, ogni preghiera, ogni parola buona, ogni ubbidienza; ogni riflessione teologica, ogni servizio reso al prossimo, ogni buona testimonianza, ogni culto reso al Signore non sono altro che opere dello Spirito e atti di evangelizzazione.

martedì 25 novembre 2008

Giovanni 15:12-17 - La Missione: amicizia per l'umanità


Uno dei valori fondamentali cristianesimo è l’evangelizzazione. L’apostolo Paolo esclamò: «Guai a me se non evangelizzo» (1Cor.9:16). Questa è una parola biblica “pesante”, è uno dei sinonimi di predicazione. Io vorrei però usare al suo posto un altro sinonimo, il termine “missione”. Certo, questo termine ha i suoi problemi, legati a pagine buie, spiacevoli e imbarazzanti della storia della chiesa; eppure mi sembra quello che meglio spiega il compito della predicazione in una società occidentale odierna. Dico questo partendo dal presupposto che la cultura italiana è tornata ad essere un campo missionario.
Penso che oggi si possa parlare di missione solo facendo uno sforzo di creatività. Per questo parlerò di missione usando un testo che parla di amicizia. Il nostro compito missionario, infatti, lo dobbiamo svolgere con un nuovo spirito: non quello delle Crociate o della conquista del Messico, ma con uno spirito che ci aiuti, mantenendo l’integrità dell’Evangelo e la nostra autenticità, a dire «La verità nell'amore» (Ef. 4:15).

Oggi tutte le religioni hanno – almeno in parte – ceduto alla tentazione fondamentalista. Di fronte alla secolarizzazione delle società, le religioni (tutte le religioni) hanno reagito con la riproposizione delle proprie tradizioni. Infatti, purtroppo, il fondamentalismo non è un ritorno ai fondamenti della fede, né al fondamento della Bibbia (per gli evangelici), né ai fondamenti della propria tradizione (per i cattolici), ma si è configurato come un ritorno a quella cultura dove le loro tradizioni vivevano rigogliose. Ma quella cultura si è ormai dissolta e risuscitarla è un’operazione macabra.
Il testo che abbiamo letto si trova incastonato in un contesto che getta la dovuta luce sul significato delle parole di Gesù. Prima del nostro brano c’è la famosa pericope della vite e dei tralci, dopo, un detto di Gesù sul rifiuto del mondo e sulle persecuzioni. Gesù risponde così a due problemi dei cristiani: 1) il rapporto con la fede d’Israele e 2) il rapporto con il mondo.
· Riguardo alla fede d’Israele Gesù afferma che il legame che unisce il credente a Dio è lui stesso. Israele e la sua fede non possono più costituire questo legame.
· Riguardo al rapporto con il mondo Gesù afferma che il mondo può rifiutare i credenti e la chiesa, ma la chiesa e i credenti non possono rifiutare il mondo. Il mondo rifiuta i credenti per lo stesso motivo per cui ha rifiutato Gesù.
In Cristo non possono esserci “due popoli”, ma uno solo, ed il legame con Dio non avviene attraverso la Legge o il popolo d’Israele, ma attraverso lo stretto legame con Cristo: come i tralci alla vite. L’Evangelo ci chiama quindi ad avere un atteggiamento di amore e di amicizia nei confronti di tutte le persone con cui veniamo a contatto.

Come si può essere amici dell’umanità?
Gesù aveva detto che il grande comandamento era: «Ama il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta l'anima tua, con tutta la forza tua, con tutta la mente tua, e il tuo prossimo come te stesso». (Lc. 10:27) Qui Gesù va oltre il puro amore umano verso Dio e dice: «Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri, come io ho amato voi.» egli fa riferimento ad un amore umano che ha come motivazione e come paragone l’amore divino. Dobbiamo amare il prossimo come Gesù ha amato noi.
E spiega subito che cosa intende: «Nessuno ha amore più grande di quello di dar la sua vita per i suoi amici. Voi siete miei amici». Gesù ci ha amato dandoci la sua vita e chiama noi a dare la nostra vita per gli amici. E gli amici, abbiamo visto, non sono solo altri credenti, ma sono anche quelli che vogliamo raggiungere col messaggio dell’Evangelo («Perché Dio ha tanto amato il mondo, che ha dato il suo unigenito Figlio, affinché chiunque crede in lui non perisca, ma abbia vita eterna.» Gv. 3:16). Quando si emula Gesù nell’amore, non si amano solo quelli che sono degni del nostro amore, ma tutti quelli che Gesù ama, siano o no degni di amore. E’ così che Gesù si è comportato con i discepoli, è così che si è comportato con noi ed è così che Dio agisce verso la famiglia umana.

Il "movimento" missionario
Nella Bibbia, sia nell’Antico che nel Nuovo Testamento, c’è una bella immagine del modo di Dio di darsi al mondo. La troviamo chiaramente affermata nel profeta Isaia: «Così è della mia parola, uscita dalla mia bocca: essa non torna a me a vuoto, senza aver compiuto ciò che io voglio e condotto a buon fine ciò per cui l'ho mandata.» (Is.55:11) e poi nel prologo di Giovanni: «Nel principio era la Parola, la Parola era con Dio, e la Parola era Dio. Essa era nel principio con Dio. Ogni cosa è stata fatta per mezzo di lei; e senza di lei neppure una delle cose fatte è stata fatta. … E la Parola è diventata carne e ha abitato per un tempo fra di noi, piena di grazia e di verità; e noi abbiamo contemplato la sua gloria, gloria come di unigenito dal Padre. … Nessuno ha mai visto Dio; l'unigenito Dio, che è nel seno del Padre, è quello che l'ha fatto conoscere.» (Gv.1:1-18)
Il movimento è questo: la Parola è presso Dio, essa viene mandata nel mondo, compie ciò per cui è stata mandata e torna a Dio. Si tratta di un movimento, di un processo, circolare che parte da Dio e torna a Dio portando i suoi risultati. Questo movimento circolare di Dio è anche a fondamento della nostra idea di missione (missione significa essere mandati); i credenti vengono mandati nel mondo per poter tornare a Dio avendo compiuto il loro compito di testimonianza.
Anche qui c’è da dire due cose:
· Il vero e unico missionario è Dio. Dio manda (la Parola, il Figlio, lo Spirito Santo), Dio viene, Cristo viene e tornerà, lo Spirito soffia.
· Questa è anche la parabola del nostro coinvolgimento del mondo. Noi non siamo del mondo, ma siamo mandati per il mondo per portare la testimonianza di Cristo perché il mondo torni a Dio.
Questo è il nostro dono di noi stessi al mondo, questo è il nostro amore in pratica, questa la nostra amicizia verso l’umanità. Il credente entra nel contesto in cui vive con lo scopo di trasformarlo attraverso il proprio coinvolgimento in prima persona, esattamente come Dio è entrato nel mondo abbassandosi fino a noi e fino alla morte, incarnandosi in Cristo, per trasformarlo.
Si tratta di un amore non sentimentalista, ma fattivo, che ci espone al mondo, ma che anche trasforma il mondo. Non si tratta di adeguarci al mondo, si tratta di coinvolgerci in esso. Dobbiamo capire la differenza.
Il cristiano che immagino è un missionario nel proprio ambiente attraverso l’amicizia.

Le vite toccate dalla Parola Dio vengono trasformate.
Noi lo sappiamo, noi l’abbiamo sperimentato, noi lo viviamo ogni giorno! Bene, noi siamo qui per permettere che la Parola di Dio tocchi le vite della gente. Questo significa coinvolgerci nel mondo (combattere il mondo con i mezzi del mondo significa invece compromettersi, conformarsi al presente secolo).
Questo è il primo valore che vorrei sostenere: l’amicizia è la nostra missione, il nostro modo di essere missionari. Proprio come l’amicizia è stato il modo di Gesù di mettersi in relazione a noi: «Voi siete miei amici, se fate le cose che io vi comando.» la nostra amicizia con Gesù consiste nell’essere in relazione con lui, nel conoscere la sua volontà, il suo carattere, i suoi progetti. Questa non è una finzione, questa non è una pretesa, questa è la promessa che abbiamo ricevuto: conoscere ciò che conosce Dio! Ciò che Dio condivide con noi non è la sua divinità, ma il suo potere di perdonare, l’iniziativa di amare coloro che gli sono ostili, e la capacità di amare di un amore che rende amabili anche quelli che non lo sono proprio! ... e questo è esattamente il messaggio che deve arrivare: io conosco Dio, so che cosa vuole dirti e cosa vuole da te, so cosa sta facendo per il mondo e come sarà il mondo alla fine. Non si tratta di giudicare nessuno, si tratta di mostrare la propria relazione con Dio e di dimostrare l’importanza di questa relazione per ogni persona umana. Non si tratta di spiegare dottrine, non si tratta di imporre stili di vita, si tratta di portare le persone ad una relazione con Gesù. Lui farà di loro ciò che ha promesso, come lo ha fatto fedelmente con noi.

E se i credenti sono amici dell’umanità, che cos’è la comunità dei credenti?
Gesù dice: «Non siete voi che avete scelto me, ma sono io che ho scelto voi». La comunità dei credenti non è soprattutto un gruppo di persone che crede certe dottrine e che vive secondo un certo stile di vita, ma è più di questo, essa è la comunità di coloro che sono stati raggiunti dalla grazia di Dio, che sono stati sorpresi dalla speranza. Non è gente che ha scelto, ma gente che è stata scelta. Non c’è nessun merito nell’essere nella chiesa del Signore, c’è la grazia! La nostra comunione non è primariamente umana, ma soprattutto e fondamentalmente spirituale, discende cioè non da ciò che noi facciamo, ma da ciò che lo Spirito opera in mezzo a noi.

mercoledì 19 novembre 2008

Efesini 4:10-16 - Tras-Formazione

Su questi pochi, ma densi, versetti bisogna dire tre cose veramente importanti:
Tutti i credenti devono giocare il loro ruolo nel permettere alla chiesa di raggiungere l’unità e la maturità che le appartengono.
Qui è importante sottolineare due cose:

1. tutti i credenti hanno la responsabilità e il vero e proprio ministero di operare in vista dell’unità della chiesa e in vista della crescita di tutto il corpo. Tutti. Questo dovere non appartiene ad alcuni della chiesa che hanno le competenze, che hanno i titoli o che vengono eletti per svolgere questo compito. E’ un dovere di tutti, tutti cooperano alla costruzione della chiesa, alla sua unità, alla sua crescita spirituale.
2. I credenti impegnati in questo compito non determinano l’unità né procurano la maturità, ma preservano l’unità e raggiungono la maturità che la chiesa ha già ricevuto da Cristo. La chiesa è già una, non lo deve diventare; la chiesa è già il corpo completo e armonioso di Cristo, non lo deve diventare; i credenti sono pertanto chiamati a preservare la sua unità e a raggiungere e adeguarsi alla sua maturità e armoniosità. Quindi, ogni credente è impegnato nella preservazione dell’unità della chiesa e nel raggiungimento della maturità di Cristo.

Il punto focale del testo è certamente la maturazione personale del credente, ma lo scopo della maturazione del corpo è la sua missione.
Esiste cioè un proposito per l’unità della chiesa e per la sua piena maturità. Né l’unità è fine a se stessa, ma ha come scopo la coesione della chiesa e la cooperazione di tutte le competenze come le membra del corpo umano; né la maturazione spirituale è fine a se stessa, ma ha come scopo l’armoniosità del corpo e lo sviluppo di tutte le facoltà con il fine di essere in grado di fare tutto ciò che si vuole chiedere al corpo. La chiesa deve avere tutte le sue membra sviluppate adeguatamente per poter eseguire ciò che è chiamata a fare. Quindi è vero che ogni credente individualmente è responsabile di crescere fino alle sue piene potenzialità, ma lo scopo, il fine di questa crescita individuale, è l’armoniosità di tutto il corpo. La qualità della vita corporata della chiesa ha a che fare con la sua missione. Ogni credente deve crescere perché il corpo possa operare efficacemente. E il corpo deve essere in efficienza a motivo della sua missione, deve essere in grado di compiere ciò che gli viene chiesto. Ogni credente è impegnato a seguire la propria tabella di “fitness spirituale” non per specchiarsi come quelli del body building, ma perché gioca in una squadra dove la propria competenza è al servizio di tutti e ha per obiettivo la partita. Quindi, ogni credente segue individualmente la propria maturazione spirituale, ma il fine di ciò è la missione complessiva della chiesa.

I ministri della chiesa sono dati per questo compito di formazione: per la crescita e la maturazione del corpo fino al suo completo sviluppo.
Anche qui ci sono alcuni aspetti da sottolineare:
1. nel testo non si parla di ministeri della chiesa, ma dei ministri. Cristo non ha donato alla chiesa una volta per tutte una certa organizzazione (…), ma dona continuamente alla chiesa delle persone che svolgono dei ministeri (cioè dei servizi per la comunità). Questi ministeri non sono guardati dal punto di vista disciplinare o gerarchico, ma dal punto di vita funzionale, somigliano più a degli allenatori (”personal trainers”) che a dei “reverendi”. Non sono dati per essere più in alto gerarchicamente in base alla loro carriera, ma per svolgere un compito in base alla loro esperienza.
2. L’unità della chiesa non consiste nell’uniformità, ma esattamente nella diversità. Questo è un discorso che Paolo fa anche ai Corinzi. Il corpo è tale perché ha molte funzioni, vive per la sua diversità (…) quindi la diversità dei ministeri contribuisce all’unità del corpo (e non ne è un limite).
3. L’elemento essenziale per il raggiungimento di questa armoniosa unità delle diversità del corpo è l’amore. L’edificazione del corpo è fatta nell’amore. Nell’amore significa che la disciplina alla quale ci sottoponiamo per ottenere la nostra crescita spirituale non è disumana, non è a base di steroidi. Anzi, è fatta di fiducia per la persona, di speranza per la buona riuscita, di sostegno nel processo, di incoraggiamento nelle difficoltà, di solidarietà, di conforto. Il credente deve gareggiare con le proprie forze e i propri muscoli, non attraverso qualche stratagemma. Per questo deve vivere in un ambiente adatto alla maturazione, cioè un ambiente dove vige l’amore.
4. Una parte importante di questa formazione è fatta per lasciarsi dietro l’immaturità, l’instabilità e la propensione a credere qualsiasi dottrina che ci pare consona. La stabilità caratteriale ed emotiva sono elementi fondamentali della maturità cristiana. Noi, prima di essere cristiani, siamo persone umane. Lo sfarfallare qua e là in cerca di ciò che fa per noi è contrario alla logica del discorso biblico che piuttosto chiede uno sforzo di trasformazione, di perseveranza, di resistenza affinché noi ci adeguiamo al corpo di Cristo. Il punto qui non è trovarsi bene nella chiesa, ma al contrario sforzarsi di raggiungere la completezza di poter far parte del corpo armonioso di Cristo. La chiesa, più che un circolo ricreativo, è una palestra.

Fin qui il testo. Ma come è organizzata invece oggi la chiesa per quanto riguarda la formazione dei suoi membri? La formazione spirituale dei credenti è organizzata intorno al presupposto che la chiesa chiama le persone a sé: «Vieni qui, entra a far parte, esci dal mondo ed entra nella chiesa; se hai una competenza nel mondo, non offrirla più al mondo, ma offrila alla chiesa» Molti diranno: perché non deve essere così? Non è sempre stato così? No! In verità siamo intrappolati dentro un paradigma culturale, non deve necessariamente essere così e neppure è sempre stato così!
In base al presupposto della chiesa che “chiama”, la nostra formazione risponde alla domanda: «come formiamo dei bravi membri di chiesa?» Il risultato è che formiamo i credenti a vivere sempre meglio nella chiesa e sempre più disadattati nel mondo.Il grande problema di questa impostazione è che induce a pensare che seguire Gesù sia la stessa cosa che essere membri di chiesa e che per essere un buon discepolo devi essere un bravo membro.
Il fatto è che fino ad oggi abbiamo vissuto in una cultura ecclesiastica: esisteva una religione di maggioranza che dava il tono a tutta la società, forniva i valori, i comportamenti e i modi di pensare che erano condivisi da tutti e chi non li condivideva era una “minoranza”. Si era discepoli di Gesù nella chiesa e nella società, le quali corrispondevano una all’altra. Oggi la cultura è cambiata, non esiste più una maggioranza (neanche cattolica in Italia) e non c’è più il fornitore unico di valori, comportamenti e modi di pensare. Essere discepoli in chiesa significa non essere più discepoli nella società. Non ci siamo ritirati noi, si è ritirata l’acqua sotto i nostri piedi e stiamo nuotando all’asciutto. La chiesa è diventata semplicemente irrilevante per la maggior parte della gente.

Quindi c’è bisogno di cambiare questo “paradigma” che abbiamo ereditato e che ci pare l’unico possibile. L’altro paradigma è quello biblico: «Andate dunque e fate miei discepoli tutti i popoli battezzandoli nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo, insegnando loro a osservare tutte quante le cose che vi ho comandate.» (Matteo 28:19-20a) Questo versetto contraddice proprio il presupposto della nostra formazione spirituale e afferma che la chiesa esiste per “andare a fare discepoli”. Non “vieni”, ma “andiamo”. Il presupposto è estroverso. La Bibbia ci chiama ad andare, non a sottrarci. Ricordate sempre questo dato fondamentale biblico: Nella Bibbia è sempre Dio che prende l’iniziativa. Dio ha chiamato le cose all’esistenza, Dio ha chiamato Abramo, Dio ha chiamato Mosè, Dio è entrato nel mondo in Cristo, Dio manda lo Spirito Santo, e Cristo tornerà in Gloria. Dio è entrato nella nostra vita. Non siamo noi, è Dio! Dio si muove, non noi. Noi siamo lo strumento dell’iniziativa di Dio. Siamo noi che dobbiamo andare. «Io devo venirti incontro come Dio è venuto incontro a me».
Quindi il nostro presupposto nella formazione spirituale dei credenti è una chiesa che si organizza per andare nel mondo in risposta fedele al mandato biblico. E la domanda che dobbiamo porci è questa: «come possiamo formare buoni discepoli di Cristo nel mondo?» Non dobbiamo più sottrarci e difenderci dal mondo, ma al contrario prepararci e coinvolgerci. Allenarci e giocare la partita per vincerla.

sabato 15 novembre 2008

Efesini 4:7-16 - Crescere Spiritualmente


La preoccupazione fondamentale della prima parte del capitolo 4 della lettera agli Efesini (che è la parte esortativa della lettera) è duplice: l’unità della chiesa da un lato e la maturità dei suoi membri dall’altro. Questa volta ci soffermiamo solo sulla seconda parte, quella che riguarda la maturità dei credenti.
Il concetto fondamentale che è alla base del nostro testo è che l’edificazione della chiesa corre di pari passo con la maturazione spirituale dei credenti.
La fede cristiana è chiamata alla crescita e la comunità cristiana è l’ambiente favorevole alla maturazione spirituale dei suoi membri.

Lutero diceva che «La fede è una cosa vivente e sempre in movimento». Questa è una verità che deriva dall’esperienza del credente che – quando la cura – vede la propria fede modificarsi, approfondirsi e maturare; e dalla testimonianza biblica, la quale dice che la fede nasce e si sviluppa: «come bambini appena nati, desiderate il puro latte spirituale, perché con esso cresciate per la salvezza» (1 Pie. 2:2) e può giungere fino «all’altezza della statura perfetta di Cristo
Al v. 15 viene fatta una affermazione fondamentale: «ma, seguendo la verità nell'amore, cresciamo in ogni cosa verso colui che è il capo, cioè Cristo
Qui è contenuto il concetto del valore di cui stiamo parlando: la crescita spirituale. L’apostolo ci chiama a crescere «in ogni cosa verso colui che è il capo, cioè Cristo.» La fede deve crescere, non tanto in quantità, ma in qualità, in consapevolezza, in conoscenza, in profondità, in impegno, nella relazione con Dio. Si tratta di una maturazione spirituale che dovrebbe anticipare e guidare anche la nostra maturazione umana fino «allo stato di uomini fatti».
Questa crescita ha due caratteristiche: la prima è che ha una progettualità e un orientamento; non si tratta di una crescita qualsiasi, ma ha una direzionalità, è una crescita in vista di qualcosa: ha come obiettivo Cristo e si persegue seguendo la verità. Ma la verità viene seguita «nell’amore», è precisato. La verità è importante, ma senza l’amore è snaturata. Nella Bibbia, abbiamo avuto modo di dirlo molte volte, la verità è Dio, ma l’affermazione fondamentale è che «Dio è amore.» Verità e amore non possono essere disgiunte senza rendere la verità uno strumento di morte e l’amore un sentimento che fa rima con cuore. La verità non si brandisce come un spada che ferisce tutti quelli che colpisce, ma si offre come un fiore che rallegra ogni cuore che lo riceve.
La seconda caratteristica della crescita spirituale è comunitaria e riguarda la diversità dei doni. Esiste una unità della fede, ma non una unità dei doni, anzi, l’unità del corpo è data proprio dalla diversità e dalla articolazione delle membra. La diversità dei doni costituisce l’idea di unità della chiesa. Una comunità pienamente matura ha molte membra con funzioni diverse che si articolano perfettamente per lo scopo comune dell’intero corpo.

Al v. 7 viene espresso un concetto importante che è al vertice della struttura del ragionamento di Paolo: «a ciascuno di noi la grazia è stata data secondo la misura del dono di Cristo
Che cos’è la “grazia” di cui l’apostolo parla qui?
Nella chiesa, ogni membro ha un ruolo distintivo da giocare per il corretto funzionamento di tutto il corpo. L’abilità di svolgere questo ruolo è chiamato la “grazia”, che è data a ciascuno. Poco sopra Paolo stesso chiama la possibilità di essere apostolo degli stranieri una “grazia”: «A me, dico, che sono il minimo fra tutti i santi, è stata data questa grazia di annunziare agli stranieri le insondabili ricchezze di Cristo» (3:8) e nella lettera ai Romani scrive: «così noi, che siamo molti, siamo un solo corpo in Cristo, e, individualmente, siamo membra l'uno dell'altro. Avendo pertanto carismi differenti secondo la grazia che ci è stata concessa, se abbiamo carisma di profezia, profetizziamo conformemente alla fede» (Rm. 12:5-6). E’ chiaro che la “grazia”, qui, è un ministero, o un dono spirituale: «Infatti, a uno è data, mediante lo Spirito, parola di sapienza; a un altro parola di conoscenza, secondo il medesimo Spirito; a un altro, fede, mediante il medesimo Spirito; a un altro, carismi di guarigione, per mezzo del medesimo Spirito; a un altro, potenza di operare miracoli; a un altro, profezia; a un altro, il discernimento degli spiriti; a un altro, diversità di lingue e a un altro, l'interpretazione delle lingue; ma tutte queste cose le opera quell'unico e medesimo Spirito, distribuendo i doni a ciascuno in particolare come vuole.» (1 Cor. 12:8-11). Quindi il significato di questa frase è: «a ciascuno di noi è stato dato un ministero». Questo ministero è dato a tutti i credenti indistintamente, anche se varia «secondo la misura del dono di Cristo.» Quindi, tutti i credenti hanno un compito da svolgere e questo compito è l’edificazione della chiesa. Ciò non è compito di uno o di pochi, ma di tutti.

Come abbiamo detto, in questo testo non si riesce a districare l’edificazione della chiesa dalla crescita spirituale dei suoi membri, sono due aspetti della medesima cosa, corrono parallele e sono legate l’una all’altra. Maturare significa edificare la chiesa ed edificare la chiesa significa far maturare i credenti. Ma in verità non sono i credenti ad edificare la chiesa. Chi edifica la chiesa è Gesù Cristo: «Da lui tutto il corpo ben collegato e ben connesso mediante l'aiuto fornito da tutte le giunture, trae il proprio sviluppo nella misura del vigore di ogni singola parte, per edificare sé stesso nell'amore.» Il compito de credenti è di crescere verso Gesù Cristo; come il corpo umano nello sviluppo trova le proprie giuste proporzioni, così il credente raggiunge, con la maturità di fede, le giuste proporzioni con il capo del corpo: Gesù Cristo. Cristo è come il nostro DNA che ci fa crescere fino all’armonia completa del corpo. Così non solo è maturato il credente, ma anche la comunità è stata edificata, in un tutt’uno.

Il fatto che l’edificazione della chiesa, nonostante sia un’opera di Cristo, sia un ministero dei credenti, implica un altro fatto: che la comunità cristiana è il luogo dove i credenti insieme sono incamminati in questo percorso di maturazione, e per questo si offrono un servizio reciproco di incoraggiamento, testimonianza e aiuto. Questa strada non si percorre da soli, ma in compagnia di tutti coloro che sono stati invitati a fare questo percorso. Per strada si parla, ci si fa compagnia, ci si scambiano esperienze, si riceve e si dà aiuto, chi sta avanti può avvisare gli altri delle difficoltà, dei pericoli, chi è indietro può ricevere sostegno, chi è stanco può ricevere aiuto. Insomma, la chiesa deve anche essere il luogo favorevole alla crescita spirituale dei credenti. Un ambiente sicuro, amichevole, incoraggiante, solidale, dove la gente impara non solo a diventare cristiano, ma anche a diventare un uomo, una donna.
Il problema dell’uomo moderno non è più la sua capacità tecnologica, ma ormai è diventato il crescere nelle competenze umane e spirituali. L’umanità deve crescere nella saggezza per colmare quella distanza che si è creata tra le nostre competenze tecnologiche e la nostre competenze umane.

Dovremmo cominciare a sentirci chiamati a diventare delle persone migliori, con relazioni umane migliori per edificare un mondo migliore. La chiesa è il luogo dove questo uomo nuovo e mondo nuovo possono emergere.

lunedì 10 novembre 2008

Matteo 28:18b-20 - Il Discepolato come Missione della Chiesa

La chiesa è, per sua natura, estroversa. Essa non chiama a sé il mondo, ma è essa chiamata, da Gesù, ad andare nel mondo. Questa è la sua missione. La chiesa va nel mondo perché è lo strumento dell’iniziativa di Dio a favore del mondo.
Quindi, la preoccupazione maggiore della comunità cristiana è quella di formare dei discepoli di Cristo nel mondo e non semplicemente dei “buoni membri di chiesa”. Essa é una “palestra” di spiritualità; non la tana dove ci si rifugia per sottrarsi alle responsabilità e alla missione verso il mondo, ma il luogo dove si torna per trovare nuova linfa, sostegno, formazione e confronto nella propria missione nel mondo.

Su queste parole di Gesù bisogna dire almeno due cose:

La prima. Tre sono le parole che scandiscono il ritmo di questo mandato e che, in qualche modo, pongono le caratteristiche fondamentali della missione cristiana: «Andate», «Fate miei discepoli», «Insegnando».

La prima caratteristica è quella dell’andare (questo verbo andrebbe tradotto con “andando”, con il significato di “mentre andate”). Uno dei significati della parola discepolo è “seguace”, cioè colui che segue qualcuno. Un antico detto ebraico dice: «Segui il rabbino, bevi dalle sue parole e bagnati nella polvere dei suoi sandali». Questa è l’essenza del discepolato e l’essenza dei discepoli di Gesù: seguire il Maestro, dissetarsi dalle sue parole e camminare così vicino a lui da rimanere impolverati della polvere sollevata dai suoi passi. Gesù disse al giovane ricco: «Tu vieni e seguimi». Essere discepoli in primo luogo significa andare dove va il Maestro, farsi guidare da lui, seguirlo, essere con lui, vivere con lui. Non si può immaginare un discepolo che viva lontano e che segua vie diverse da quelle del suo Maestro.

La seconda caratteristica è quella dell’imparare. Il significato principale della parola discepolo è ovviamente “colui che impara”. Il discepolo “beve dalle parole del Maestro”. La relazione che c’è tra il Maestro e il discepolo è quella che c’è tra chi insegna e chi impara. Il Maestro insegna, il discepolo impara. Da questo si riconosce il vero discepolo: «Se uno mi ama, osserverà la mia parola». Essere discepoli di Gesù significa “essere con lui per imparare da lui ad essere come lui”. Il discepolato non è fatto per rimanere come si è. E non si può immaginare un discepolato che non implichi la trasformazione del carattere e della vita del discepolo.

La terza caratteristica è quella dell’insegnare. Il discepolo non solo segue il Maestro, non solo impara da lui, ma anche insegna ad altri ad essere discepoli. Con la sua esperienza di discepolo può insegnare ad altri ad esserlo. Gesù stesso ha detto: «Chi ascolta voi ascolta me; chi respinge voi respinge me, e chi rifiuta me rifiuta Colui che mi ha mandato». C’è una specie di “cinghia di trasmissione” della parola da Dio fino all’ultimo discepolo. Essere discepoli è una esperienza che deve essere trasmessa. L’insegnamento è primariamente un insegnamento all’ubbidienza: «a osservare tutte quante le cose che vi ho comandate». Non si può scindere il discepolato all’ubbidienza, ed è questa ubbidienza, tanto difficile da ottenere, che va insegnata.

C’è da aggiungere una cosa, al riguardo del discepolato, che ci viene dal contesto. Gesù stesso incapsula il versetto 19, dove dice: andate, fate discepoli, insegnando … all’interno di una cornice. L’inizio del detto di Gesù è: «Ogni potere mi è stato dato in cielo e sulla terra» e alla fine conclude: «Ed ecco, io sono con voi tutti i giorni, sino alla fine dell'età presente». Questa cornice è molto importante, perché stabilisce un cosiddetto “paradigma”, cioè un quadro di riferimento all’interno del quale le parole dette hanno un significato e un potere. Ossia, quelle parole di Gesù sono concepibili solo all’interno di quel quadro di riferimento. Questo quadro è costituito da un lato dal potere di Cristo che gli è stato dato in cielo e sulla terra, e dall’altro dalla presenza di Cristo con i discepoli per sempre. Senza questo potere e questa presenza di Cristo, il suo mandato sarebbe per noi velleitario. Un autore dice che le promesse che Gesù ha fatte per questo tempo fino al suo ritorno, sono fatte precisamente ai suoi discepoli. Chi non è suo discepolo e legge queste promesse come se fossero rivolte a lui è come qualcuno che tenta di incassare un assegno che non è suo: è una cosa che riesce raramente!

La seconda cosa che bisogna dire di questo testo. Il comandamento che riceviamo da Gesù è: «Fate miei discepoli». In questo grande mandato di Gesù il verbo all’imperativo – cioè quello che contiene il comando – è solo questo «fate miei discepoli». A rigor di termini, tutti e tre i verbi compongono il mandato di Gesù, ma solo quello centrale rappresenta un comandamento. Quindi, il comandamento di Gesù risorto ai suoi discepoli è uno solo: «fate miei discepoli»; gli altri due verbi ci dicono come: andando e insegnando. Qui non c’è scritto né “salvate ogni persona umana”, né “salvate il mondo”; ma solamente «fate miei discepoli». Ciò che viene messo in risalto è il discepolato stesso, cioè la relazione dei credenti con il loro Signore. C. S. Lewis (l’autore di “Le cronache di Narnia”) ha scritto che la nostra fede non è questione di ascoltare quello che Cristo ha detto tanto tempo fa e cercare di metterlo in pratica. Piuttosto, la fede consiste nell’avere il vero Figlio di Dio al nostro fianco che cerca di trasformarci nello stesso tipo di persona che lui è. Per così dire egli inocula la sua vita eterna in noi e noi veniamo trasformati in persone vive della sua vita. Ciò è possibile solo in questo stretto discepolato.

La terza cosa che bisogna dire di questo testo. Insegnare l’ubbidienza è parte integrante del discepolato. La trasformazione del nostro carattere e della nostra vita è parte integrante del messaggio di salvezza. Oggi la chiesa si è abituata al rapporto “clientelare” con i propri membri. Molti di quelli che fanno parte della chiesa, o semplicemente la frequentano, hanno un rapporto con la chiesa e non con Cristo. Per molti la chiesa è “interessante” culturalmente e socialmente, per altri l’aver creduto a Gesù non è significato una vera trasformazione della vita, è stato un rapporto (per mille ragioni) terminato prematuramente. La fede cristiana è una grandiosa opportunità di cambiare il nostro carattere e il modo in cui viviamo la nostra vita che non viene sfruttata. Questo non significa che solo i discepoli verranno salvati. Ma io mi chiedo: “come farà una persona amareggiata, con il cuore gonfio di risentimento e di rabbia, incapace di perdonare, disabituata ad amare gratuitamente e senza ritorno, a vivere in paradiso?” Non è solo una questione di salvezza per grazia, ma anche una questione di “essere pronti a vivere col Signore”. Siamo sicuri che chi va con il Signore sarà automaticamente capace di viverci? Vivere come discepoli significa imparare a vivere accanto al Signore.

Quindi, come si “fanno discepoli di Cristo”?
Prima di tutto per fare discepoli bisogna essere discepoli. Questo comandamento di Gesù ci chiede, se non l’abbiamo già fatto, di diventare discepoli per poter fare discepoli. E per fare questo dobbiamo agire su quelle idee che ci prevengono dal diventare discepoli e di usare questa introspezione per poter fare una esperienza utile per parlare a coloro che vogliamo diventino discepoli di Gesù.
se volessimo usare un motto per questo testo potremmo dire così: “Nel proprio discepolato, fare discepoli educando al discepolato”.
Il discepolato ha come obiettivo la trasformazione, questa è la parola chiave.
· Il discepolato vuole cambiare il carattere delle persone, le loro idee, i loro valori negativi che rendono la nostra vita privata miserabile.
· Vuole cambiare il modo in cui viviamo la nostra vita, i nostri stili di vita eccessivi, egoistici e distruttivi che minano le nostre relazioni umane.
· Vuole, in definitiva, cambiare il mondo e le sue regole inique, ingiuste, che tolgono la pace e distruggono la terra, per ristabilire l’equilibrio sano e felice della creazione.
Il discepolato significa: “essere con lui per imparare da lui ad essere come lui”.

martedì 4 novembre 2008

Geremia 29:4-7 - Da chiese generiche a comunità incarnate


Se noi volessimo spiegare il senso del testo di oggi con una sola frase potremmo dire che “la geografia della salvezza è cambiata”. L’esilio babilonese è stato come un terremoto che ha cambiato per sempre il contesto della fede d’Israele. La profezia di Geremia fa quattro affermazioni sconvolgenti, destinate a modificare permanentemente l’atteggiamento di fede degli israeliti.

La profezia afferma che dietro l’esilio del popolo d’Israele a Babilonia c’è Dio. «Così parla il Signore degli eserciti, Dio d'Israele, a tutti i deportati che io ho fatto condurre da Gerusalemme a Babilonia». Questo significa che Dio non si è mostrato come il liberatore d’Israele, ma esattamente come suo oppressore. Contro tutta la tradizione biblica fino a quel momento, Dio si manifesta non come redentore d’Israele, ma come suo giudice. Il profeta Geremia, per questo, verrà additato come un falso profeta.
Si tratta di un’affermazione radicale e di una durezza inconcepibile per il popolo di Dio che la riceve. Soprattutto, qui c’è la condanna, ma non c’è la colpa. Perché questo giudizio così duro? Quale è stato il peccato del popolo che ha fatto meritare un tracollo di questa portata? Forse si potrebbe andare a leggere qualche pagina precedente del profeta per capire il peccato del popolo, ma rimane il fatto che la profezia stessa manca dell’affermazione del peccato del popolo, cioè manca di una giustificazione. Dio aveva già in passato punito il popolo per il suo peccato, questo Israele era pronto a capirlo, ma ora non viene detto perché! E’ cambiato qualcosa nella sua relazione con il suo popolo? Tutto ciò è inaccettabile per il popolo, ma Geremia lo chiama ad accettare questo giudizio.
Col senno di poi, noi possiamo però vedere che attraverso l’accettazione di questo giudizio così incomprensibile, Dio sta guidando il suo popolo verso l’adempimento della promessa fatta ad Abramo: «in te saranno benedette tutte le famiglie della terra». E’ dalla diaspora babilonese che nascerà il giudaismo del tempo di Gesù, nell’alveo del quale nascerà il cristianesimo. E’ chiaro che, comunque, con questa profezia il panorama della fede d’Israele cambia radicalmente e per sempre

La profezia afferma che Israele deve vivere a Babilonia come se vivesse nella terra promessa. «Costruite case e abitatele; piantate giardini e mangiatene il frutto; prendete mogli e generate figli e figlie; prendete mogli per i vostri figli, date marito alle vostre figlie perché facciano figli e figlie; moltiplicate là dove siete, e non diminuite.» Anche se può non sembrare così, in questa profezia Geremia sta offrendo una speranza e una precisa indicazione di come il popolo dovrà vivere in questa situazione completamente mutata. “Se Dio ha così radicalmente cambiato il suo atteggiamento verso di noi”, si chiede il popolo, “come possiamo vivere qui?” Molti falsi profeti, non avendo appunto una vera visione, vedevano una sola possibilità: che Dio avrebbe fatto tornare subito il popolo a casa. E il loro messaggio era contrario a quello di Geremia, cioè incoraggiava gli israeliti a non adattarsi e a tenersi pronti per tornare (il messaggio più ovvio, quello più biblico e teologicamente coerente). Il popolo era in grande sofferenza, tenuto sulle braci da una leadership cieca che non riusciva a capire realmente cosa stava accadendo.
Anche se questo non era ciò che il popolo voleva ascoltare – cioè che l’esilio sarebbe stato lungo – nondimeno la profezia dà una precisa indicazione al popolo: “piantate le tende, rimarremo qui!” (i falsi profeti non sapevano dare alcuna indicazione di cosa fare). Ma non solo questo, Geremia offre anche una speranza al popolo; tre versetti più in là nella stessa profezia Geremia dice: «Infatti io so i pensieri che medito per voi», dice il Signore: «pensieri di pace e non di male, per darvi un avvenire e una speranza.» (v. 11), cioè, il vostro avvenire è nelle mani sicure e benevole di Dio che non mancherà di farvi conoscere le sue benedizioni (come effettivamente avverrà).
Geremia dice: “vivete come se foste a Gerusalemme”. Facile a dirsi, ma come si fa? A Babilonia manca tutto: non solo non è la terra promessa, ma manca il regno davidico, manca Gerusalemme dove si sarebbero compiute tutte le promesse, manca il tempio per i sacrifici. Come si può rimanere fedeli a Babilonia? Ma grazie alla profezia di Geremia, gli israeliti a Babilonia faranno nascere un nuovo modo di essere ebrei. Inventeranno la sinagoga; emergerà una nuova leadership, i farisei; e la fede sarà fondata sulla legge e non più sul tempio. A Babilonia nasce il giudaismo.

La profezia afferma che Dio ama i babilonesi. «Cercate il bene della città dove io vi ho fatti deportare, e pregate il Signore per essa». Anche questa affermazione arriva come una doccia fredda. Israele non è l’unico popolo di cui Dio si prende cura e che benedice. Yahwe non è l’idolo di una piccola nazione del Medio Oriente di cui solo si prende cura, ma è l’iddio creatore del cielo e della terra, colui che guida i popoli e la storia. Dio ha stretto un patto d’alleanza eterno con Israele, ma tuttavia il mondo e i popoli rimangono suoi. Dio ha eletto un popolo come sua eredità particolare, ma non ha abbandonato tutti gli altri a loro stessi. Certo, Babilonia non lo riconosce, ma nondimeno egli è il loro Dio. Nessuno ha il monopolio su Dio, nemmeno Israele (né la Chiesa). Dio è un Dio universale.

La profezia afferma che Israele ha una missione a Babilonia. «Dal bene di questa dipende il vostro bene». E’ venuto il momento che Israele comprenda ed attui il suo mandato, quello che era all’origine della vocazione di Abramo: «in te saranno benedette tutte le famiglie della terra». Questo include Babilonia. Israele, come il profeta Giona, è trascinato alla sua missione.
Vorrei che fosse chiara l’entità dello sconvolgimento a cui è stata sottoposta la fede d’Israele: Dio è un Dio universale; la sua promessa è per tutte le famiglie della terra; Israele viene inserito in un panorama totalmente cambiato e deve trovare nuove forme di fedeltà, la sua è diventata una missione. Davvero la geografia della salvezza è cambiata!

Io credo che oggi, come per Israele durante l’esilio babilonese, sia cambiata la geografia della salvezza. Nuovi approcci sono necessari. Israele è uscito dall’esperienza dell’Esilio profondamente cambiato e forse anche noi siamo chiamati a dei cambiamenti radicali. Si tratta di avere un impatto sulla società.
Parlare di impatto ci costringe a considerare gli effetti della nostra missione complessiva, che riguarda tanto l’evangelizzazione quanto la diaconia, tanto la conversione quanto la liberazione. Parlare di impatto ci costringe anche a concepirci all’interno di una missione complessiva dove non c’è chi predica e chi serve, ma ci sono solo discepoli che vivono l’evangelo in parole ed azioni in un rapporto stretto col Signore.
Questo impatto è all’interno della strategia di Dio per la salvezza del mondo: la cospirazione divina.
La consapevolezza che come credenti noi siamo cittadini del regno di Dio (come Israele che scopre di essere diventato cittadino babilonese) ci porta in una situazione completamente mutata che richiede decisioni nuove. Se vogliamo applicare alle comunità evangeliche la profezia di Geremia, dobbiamo dire che dobbiamo passare dall’essere comunità generiche all’essere comunità incarnate. Forse dietro questi grandi cambiamenti sociali che riguardano la chiesa, alcuni dei quali dolorosi, c’è la mano di Dio; forse dobbiamo cominciare a vivere come cittadini del regno di Dio; forse dovremmo riconoscere che Dio non ama solo la chiesa, ma ogni uomo e ogni donna; forse il bene del mondo è anche il nostro bene e noi abbiamo un compito qui.
Per questo motivo credo che dovremmo cominciare a ragionare più che nei termini della crescita della chiesa, cosa che ci spinge ad una evangelizzazione aggressiva e superficiale; più che nei termini della presenza nella società, che ci spinge ad una lotta ideologica e antagonistica; dovremmo parlare nei termini della crescita del regno di Dio nel mondo, diventando comunità incarnate e rimettendo al centro del nostro discorso il discepolato.

martedì 22 luglio 2008

giovedì 3 luglio 2008

Edifici ecclesiastici e spiritualità

Insieme alle "chiese" (non nel senso biblico delle comunità, ma in quello comune degli edifici) abbiamo ereditato anche la spiritualità che le ha concepiti. Esse, infatti, sono anche il risultato di un modo di concepire la fede. Si tratta di una fede stabilita, con dei fondamenti sociali solidi, nella quale la vita religiosa è rispettata e in qualche modo richiesta e incoraggiata. Si tratta di una fede centralizzata, in due sensi: 1) che ha bisogno di uffici, dipendenti e di una amministrazione. Se hai delle "chiese" hai anche una burocrazia. Inoltre, per manetenere le "chiese" hai bisogno dell'aiuto dello Stato. Ma la fede è centralizzata anche nel senso che essa, principalmente, si volge al’interno delle "chiese". Perciò esse inducono anche a un certo dualismo: ciò che si fa fuori e ciò che si fa dentro. Per questo tipo di fede hai bisogno anche dei sacerdoti. Questi hanno una funzione importantissima nella società: l’accompagnano, la guidano, la consigliano, la incoraggiano e la consolano nei momenti difficili. Insomma le "chiese" rappresentano la «religione del Tempio». Oggi la spiritualità è cambiata. Siamo nell’epoca di Internet e la gente “naviga”; c’è più movimento, ma meno sedentarietà. Le "chiese" servono meno, e spendere per mantenerle sembra sempre più uno spreco. Oggi molte chiese all’estero hanno dei piccoli gruppi casalinghi infrasettimanali e il culto lo svolgono affittando un cinema la domenica mattina. Siamo cioè tornati alla «religione del Tabernacolo», la “tenda di convegno” è il luogo meno stabile, ma più adatto a questa spiritualità. Il sacerdote serve a poco, il credente ha piuttosto bisogno di un profeta o meglio, di un apostolo, qualcuno che abbia una autorevolezza che non derivi dalla sua funzione, ma dalla sua fede e che sia in cammino con tutti gli altri. I legami esistono, ma non sono denominazionali o istituzionali, piuttosto sono fondati sulle affinità e sugli obiettivi, cioè sono dei network.
Quindi, il problema degli edifici ecclesiastici è, ancora una volta, spirituale. La decisione non è cosa ci facciamo con gli immobili, ma cosa vogliamo fare con la nuova spiritualità.
C'è bisogno di avviare una “transizione culturale” che riguardi 1) gli immobili e la loro relazione con il ministero effettivamente svolto in essi; 2) la formazione pastorale e degli altri ministeri, più deduttiva e legata al lavoro della chiesa locale con una particolare enfasi agli aspetti spirituali del ministero; e 3) la struttura ecclesiastica, meno centralizzata e più simile al network con formule di maggiore impegno di comunità e persone nella vita denominazionale attraverso delle “banche del tempo”.

mercoledì 18 giugno 2008

UCEBI "emergente"?

Riporto il "messaggio alle chiese" della 40^ Assemblea Generale dell'UCEBI (Unione Cristiana Evangelica Batista d'Italia) tenutasi il 13-15 giugno 2008 a Bellaria (RN).

Le parole di Gesù, “Tu vieni e seguimi” hanno risuonato nelle nostre orecchie e nei nostri cuori molte volte durante i lavori di questa 40^ Assemblea Generale dell’UCEBI. Esse hanno richiamato alla nostra mente i tanti racconti di vocazione e di sequela delle Scritture.

Proprio queste parole ci hanno indotto a sentire l’urgenza del momento. Una urgenza non solo dettata dalle difficoltà piccole e grandi nelle quali si trovano le nostre chiese, ma determinata, appunto, dall’incontro col Signore.

Non vogliamo nascondervi la grande preoccupazione da cui siamo partiti, ascoltando una volta ancora, dalla tirannia dei numeri, che l’andamento dell’Unione, da un punto di vista economico finanziario ha imboccato una via di declino che presto potrebbe portarci ad una situazione fuori dal nostro controllo. L’urgenza di correttivi sostanziali per trovare un punto di equilibrio tra ciò che viene dalle chiese al piano di cooperazione e ciò che è necessario profondere per il mantenimento dell’Unione e del patrimonio immobiliare, non può essere derogato più neppure di un giorno.

Tuttavia, proprio nella parole di Cristo, abbiamo voluto cogliere un’altra, superiore urgenza, quella del bisogno della nostra riconsacrazione all’opera dell’Evangelo.

La chiamata dei discepoli ai tempi di Gesù come ai nostri, porta con sé l’accoglienza di una vita più esposta, non garantita dall’illusione di risorse illimitate, ma che promette, proprio nell’audace affidamento al suo richiamo, di poter affrontare i marosi e vincere la gravità che vorrebbe inghiottirci.

Possiamo farcela perché al nostro Dio nulla è impossibile.

Guardando ai doni che lo Spirito continua a elargire nel nostro mezzo, ci rendiamo conto che il Signore non solo non ci abbandona ma anche ci mostra la via d’uscita dalle difficili contingenze dell’oggi.

Bisogna però mettere i piedi fuori dalla barca. Bisogna spostare la vita delle nostre comunità ancora di più verso le città e i quartieri in cui viviamo.
Non possiamo più accontentarci di una vita spirituale pigra e rituale che si fissa e non di rado si risolve in pochi momenti di incontro settimanale.
Molte chiese stanno già facendo uno sforzo per progettare la loro missione di evangelizzazione, di servizio agli ultimi, di diaconia politica. Bisogna fare di più. Bisogna impegnarsi tutti.

E’ necessario che rivediamo la priorità nell’uso delle nostre risorse economiche, sia come persone che come famiglie di credenti. La solidarietà, la passione per la giustizia, il soccorso per l’orfano e la vedova debbono spingerci a rivisitare la nostra spiritualità delle primizie e delle decime. Se le chiese dovranno vivere ancora per molto delle nostre elemosine e delle nostre eccedenze soccomberanno. Ma se sapremo abbandonarci ad un discepolato a “caro prezzo” il Signore moltiplicherà le nostre risorse e benedirà la nostra missione.

Anche la storica decisione di chiedere allo Stato di accedere alla ripartizione dell’8XM del gettito IRPEF, per scopi sociali, umanitari e culturali, vorremmo forse una spinta alla missione e che in alcun modo veicolasse l’idea che tale gettito potrà sostituire l’impegno dei singoli e delle comunità.

Desideriamo impegnarci ad avere momenti comunitari fatti anche di preghiera e di digiuno, per discutere di quanto è stato elaborato da questa assemblea. Ci proponiamo, nel nome del Signore, ad acquisire una nuova mentalità per la quale il lavoro del nostro anno ecclesiastico venga programmato in senso più missionario;
a cercare di fare delle analisi, facendoci aiutare anche da esperti, per comprendere meglio il momento storico che sta vivendo il nostro paese. E quindi,
a formulare le nostre priorità e perseguirle con disciplina e determinazione. Impariamo gli uni dagli altri ad avere momenti di verifica e di valutazione di quel che stiamo facendo, alla luce dalla Parola di Dio, cercando di coinvolgere il maggior numero possibile di fratelli e sorelle.

Se i nostri studi biblici non torneranno ad essere nuovamente frequentati e se non ricominceremo dal riconsacrare la domenica, partecipando all’annuncio della Parola, come assoluta priorità sulle altre cose, finiremo per non avere più le energie spirituali e le conoscenze bibliche necessarie, per affrontare questo nostro mondo così profondamente spaesato in riferimento alle ragioni di senso della vita, di rispetto della giustizia a cominciare dai più deboli, di impegno per la pace e per la salvaguardia del creato.

“Preghiamo incessantemente”, fratelli e sorelle, proprio come ci ha suggerito il motto dell’ultima Settimana di preghiera per l’unità dei cristiani, perché possiamo trovare le ragioni dell’unità del corpo di Cristo, resistendo così alle divisioni e alle conflittualità che tardano a trovare i momenti della riconciliazione.

Sostenibilità del nostro modello ecclesiastico, fiducia e audacia nella nostra sequela del Cristo, sguardo rivolto al mondo e al Regno di Dio che invochiamo, passo deciso per rimettere in movimento le nostre piccole comunità, facendo proprio delle nostre piccole dimensioni la forza di un agire rapido e tempestivo: queste le parole chiave che vogliamo lasciarvi. Il tutto accompagnato da un senso di urgenza non più derogabile.

Voglia il Signore benedire i nostri propositi, soccorrerci nei momenti di smarrimento, e formarci alla scuola del discepolato nel mondo.

Riaccenda il Signore nei nostri cuori la fede per la quale sappiamo che colui che dice “vieni e seguimi” è anche colui che ci dà la forza stringendo con la sua mano la nostra.

mercoledì 21 maggio 2008

Total Praise Gospel Music Workshop - Roma 2008

Corso di Canto Gospel aperto a tutti
4-7 SETTEMBRE 2008
Presso la:
Chiesa Evangelica Battista
via del Teatro Valle 27
Roma (centro storico)

Mark Prioleau
Direttore del coro della Alfred street Baptist Church
Alexandria - Virginia (Washington D.C.)

martedì 29 gennaio 2008

Bibbia e ubbidienza


Vorrei condividere un pensiero di Dietrich Bonhoeffer che ho trovato giorni fa su un libretto di meditazioni quotidiane.


Questo pensiero è posto a commento (non da Bonhoeffer, ma dal curatore della raccolta) di due versetti biblici: "Noi faremo tutto quello che il Signore ha detto e ubbidiremo" (Esodo 24:7) e "Non pensate che io sia venuto ad abolire la legge o i profeti; io sono venuto non per abolire ma per portarea compimento" (Matteo 5:17).


Il pensiero di Bonhoeffer riguarda specificamente i comandamenti e la legge dell'Antico Testamento, ma evidentemente riguarda tutto il nostro rapporto con la Bibbia.



"In effetti Gesù non ha nulla da aggiungere ai comandamenti di Dio, ma egli li
osserva: è questa l'unica cosa che aggiunge... La legge non è Dio e Dio non è la
legge, così che la legge possa prendere il posto di Dio. Divinizzazione della
legge e legalizzazione di Dio era il peccato d'Israele. Inversamente,
dissacrazione della legge e separazione di Dio dalla sua legge sarebbe stato il
fraintendimento e il peccato dei discepoli. Siccome Gesù è stato il solo a
osservare la legge, egli solo poteva insegnare correttamente la legge e il suo
compimento
."

In effetti questo pensiero è molto utile per riflettere sul contrasto, a volte feroce, tra "fondamentalisti" e "liberali" nell'ambiente evangelico. La risposta è qui: la Bibbia non è Dio, ma essa va ubbidita fino in fondo come fece Gesù. Non dobbiamo né sostituirla a Dio né disinnescarla.