martedì 25 novembre 2008

Giovanni 15:12-17 - La Missione: amicizia per l'umanità


Uno dei valori fondamentali cristianesimo è l’evangelizzazione. L’apostolo Paolo esclamò: «Guai a me se non evangelizzo» (1Cor.9:16). Questa è una parola biblica “pesante”, è uno dei sinonimi di predicazione. Io vorrei però usare al suo posto un altro sinonimo, il termine “missione”. Certo, questo termine ha i suoi problemi, legati a pagine buie, spiacevoli e imbarazzanti della storia della chiesa; eppure mi sembra quello che meglio spiega il compito della predicazione in una società occidentale odierna. Dico questo partendo dal presupposto che la cultura italiana è tornata ad essere un campo missionario.
Penso che oggi si possa parlare di missione solo facendo uno sforzo di creatività. Per questo parlerò di missione usando un testo che parla di amicizia. Il nostro compito missionario, infatti, lo dobbiamo svolgere con un nuovo spirito: non quello delle Crociate o della conquista del Messico, ma con uno spirito che ci aiuti, mantenendo l’integrità dell’Evangelo e la nostra autenticità, a dire «La verità nell'amore» (Ef. 4:15).

Oggi tutte le religioni hanno – almeno in parte – ceduto alla tentazione fondamentalista. Di fronte alla secolarizzazione delle società, le religioni (tutte le religioni) hanno reagito con la riproposizione delle proprie tradizioni. Infatti, purtroppo, il fondamentalismo non è un ritorno ai fondamenti della fede, né al fondamento della Bibbia (per gli evangelici), né ai fondamenti della propria tradizione (per i cattolici), ma si è configurato come un ritorno a quella cultura dove le loro tradizioni vivevano rigogliose. Ma quella cultura si è ormai dissolta e risuscitarla è un’operazione macabra.
Il testo che abbiamo letto si trova incastonato in un contesto che getta la dovuta luce sul significato delle parole di Gesù. Prima del nostro brano c’è la famosa pericope della vite e dei tralci, dopo, un detto di Gesù sul rifiuto del mondo e sulle persecuzioni. Gesù risponde così a due problemi dei cristiani: 1) il rapporto con la fede d’Israele e 2) il rapporto con il mondo.
· Riguardo alla fede d’Israele Gesù afferma che il legame che unisce il credente a Dio è lui stesso. Israele e la sua fede non possono più costituire questo legame.
· Riguardo al rapporto con il mondo Gesù afferma che il mondo può rifiutare i credenti e la chiesa, ma la chiesa e i credenti non possono rifiutare il mondo. Il mondo rifiuta i credenti per lo stesso motivo per cui ha rifiutato Gesù.
In Cristo non possono esserci “due popoli”, ma uno solo, ed il legame con Dio non avviene attraverso la Legge o il popolo d’Israele, ma attraverso lo stretto legame con Cristo: come i tralci alla vite. L’Evangelo ci chiama quindi ad avere un atteggiamento di amore e di amicizia nei confronti di tutte le persone con cui veniamo a contatto.

Come si può essere amici dell’umanità?
Gesù aveva detto che il grande comandamento era: «Ama il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta l'anima tua, con tutta la forza tua, con tutta la mente tua, e il tuo prossimo come te stesso». (Lc. 10:27) Qui Gesù va oltre il puro amore umano verso Dio e dice: «Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri, come io ho amato voi.» egli fa riferimento ad un amore umano che ha come motivazione e come paragone l’amore divino. Dobbiamo amare il prossimo come Gesù ha amato noi.
E spiega subito che cosa intende: «Nessuno ha amore più grande di quello di dar la sua vita per i suoi amici. Voi siete miei amici». Gesù ci ha amato dandoci la sua vita e chiama noi a dare la nostra vita per gli amici. E gli amici, abbiamo visto, non sono solo altri credenti, ma sono anche quelli che vogliamo raggiungere col messaggio dell’Evangelo («Perché Dio ha tanto amato il mondo, che ha dato il suo unigenito Figlio, affinché chiunque crede in lui non perisca, ma abbia vita eterna.» Gv. 3:16). Quando si emula Gesù nell’amore, non si amano solo quelli che sono degni del nostro amore, ma tutti quelli che Gesù ama, siano o no degni di amore. E’ così che Gesù si è comportato con i discepoli, è così che si è comportato con noi ed è così che Dio agisce verso la famiglia umana.

Il "movimento" missionario
Nella Bibbia, sia nell’Antico che nel Nuovo Testamento, c’è una bella immagine del modo di Dio di darsi al mondo. La troviamo chiaramente affermata nel profeta Isaia: «Così è della mia parola, uscita dalla mia bocca: essa non torna a me a vuoto, senza aver compiuto ciò che io voglio e condotto a buon fine ciò per cui l'ho mandata.» (Is.55:11) e poi nel prologo di Giovanni: «Nel principio era la Parola, la Parola era con Dio, e la Parola era Dio. Essa era nel principio con Dio. Ogni cosa è stata fatta per mezzo di lei; e senza di lei neppure una delle cose fatte è stata fatta. … E la Parola è diventata carne e ha abitato per un tempo fra di noi, piena di grazia e di verità; e noi abbiamo contemplato la sua gloria, gloria come di unigenito dal Padre. … Nessuno ha mai visto Dio; l'unigenito Dio, che è nel seno del Padre, è quello che l'ha fatto conoscere.» (Gv.1:1-18)
Il movimento è questo: la Parola è presso Dio, essa viene mandata nel mondo, compie ciò per cui è stata mandata e torna a Dio. Si tratta di un movimento, di un processo, circolare che parte da Dio e torna a Dio portando i suoi risultati. Questo movimento circolare di Dio è anche a fondamento della nostra idea di missione (missione significa essere mandati); i credenti vengono mandati nel mondo per poter tornare a Dio avendo compiuto il loro compito di testimonianza.
Anche qui c’è da dire due cose:
· Il vero e unico missionario è Dio. Dio manda (la Parola, il Figlio, lo Spirito Santo), Dio viene, Cristo viene e tornerà, lo Spirito soffia.
· Questa è anche la parabola del nostro coinvolgimento del mondo. Noi non siamo del mondo, ma siamo mandati per il mondo per portare la testimonianza di Cristo perché il mondo torni a Dio.
Questo è il nostro dono di noi stessi al mondo, questo è il nostro amore in pratica, questa la nostra amicizia verso l’umanità. Il credente entra nel contesto in cui vive con lo scopo di trasformarlo attraverso il proprio coinvolgimento in prima persona, esattamente come Dio è entrato nel mondo abbassandosi fino a noi e fino alla morte, incarnandosi in Cristo, per trasformarlo.
Si tratta di un amore non sentimentalista, ma fattivo, che ci espone al mondo, ma che anche trasforma il mondo. Non si tratta di adeguarci al mondo, si tratta di coinvolgerci in esso. Dobbiamo capire la differenza.
Il cristiano che immagino è un missionario nel proprio ambiente attraverso l’amicizia.

Le vite toccate dalla Parola Dio vengono trasformate.
Noi lo sappiamo, noi l’abbiamo sperimentato, noi lo viviamo ogni giorno! Bene, noi siamo qui per permettere che la Parola di Dio tocchi le vite della gente. Questo significa coinvolgerci nel mondo (combattere il mondo con i mezzi del mondo significa invece compromettersi, conformarsi al presente secolo).
Questo è il primo valore che vorrei sostenere: l’amicizia è la nostra missione, il nostro modo di essere missionari. Proprio come l’amicizia è stato il modo di Gesù di mettersi in relazione a noi: «Voi siete miei amici, se fate le cose che io vi comando.» la nostra amicizia con Gesù consiste nell’essere in relazione con lui, nel conoscere la sua volontà, il suo carattere, i suoi progetti. Questa non è una finzione, questa non è una pretesa, questa è la promessa che abbiamo ricevuto: conoscere ciò che conosce Dio! Ciò che Dio condivide con noi non è la sua divinità, ma il suo potere di perdonare, l’iniziativa di amare coloro che gli sono ostili, e la capacità di amare di un amore che rende amabili anche quelli che non lo sono proprio! ... e questo è esattamente il messaggio che deve arrivare: io conosco Dio, so che cosa vuole dirti e cosa vuole da te, so cosa sta facendo per il mondo e come sarà il mondo alla fine. Non si tratta di giudicare nessuno, si tratta di mostrare la propria relazione con Dio e di dimostrare l’importanza di questa relazione per ogni persona umana. Non si tratta di spiegare dottrine, non si tratta di imporre stili di vita, si tratta di portare le persone ad una relazione con Gesù. Lui farà di loro ciò che ha promesso, come lo ha fatto fedelmente con noi.

E se i credenti sono amici dell’umanità, che cos’è la comunità dei credenti?
Gesù dice: «Non siete voi che avete scelto me, ma sono io che ho scelto voi». La comunità dei credenti non è soprattutto un gruppo di persone che crede certe dottrine e che vive secondo un certo stile di vita, ma è più di questo, essa è la comunità di coloro che sono stati raggiunti dalla grazia di Dio, che sono stati sorpresi dalla speranza. Non è gente che ha scelto, ma gente che è stata scelta. Non c’è nessun merito nell’essere nella chiesa del Signore, c’è la grazia! La nostra comunione non è primariamente umana, ma soprattutto e fondamentalmente spirituale, discende cioè non da ciò che noi facciamo, ma da ciò che lo Spirito opera in mezzo a noi.

mercoledì 19 novembre 2008

Efesini 4:10-16 - Tras-Formazione

Su questi pochi, ma densi, versetti bisogna dire tre cose veramente importanti:
Tutti i credenti devono giocare il loro ruolo nel permettere alla chiesa di raggiungere l’unità e la maturità che le appartengono.
Qui è importante sottolineare due cose:

1. tutti i credenti hanno la responsabilità e il vero e proprio ministero di operare in vista dell’unità della chiesa e in vista della crescita di tutto il corpo. Tutti. Questo dovere non appartiene ad alcuni della chiesa che hanno le competenze, che hanno i titoli o che vengono eletti per svolgere questo compito. E’ un dovere di tutti, tutti cooperano alla costruzione della chiesa, alla sua unità, alla sua crescita spirituale.
2. I credenti impegnati in questo compito non determinano l’unità né procurano la maturità, ma preservano l’unità e raggiungono la maturità che la chiesa ha già ricevuto da Cristo. La chiesa è già una, non lo deve diventare; la chiesa è già il corpo completo e armonioso di Cristo, non lo deve diventare; i credenti sono pertanto chiamati a preservare la sua unità e a raggiungere e adeguarsi alla sua maturità e armoniosità. Quindi, ogni credente è impegnato nella preservazione dell’unità della chiesa e nel raggiungimento della maturità di Cristo.

Il punto focale del testo è certamente la maturazione personale del credente, ma lo scopo della maturazione del corpo è la sua missione.
Esiste cioè un proposito per l’unità della chiesa e per la sua piena maturità. Né l’unità è fine a se stessa, ma ha come scopo la coesione della chiesa e la cooperazione di tutte le competenze come le membra del corpo umano; né la maturazione spirituale è fine a se stessa, ma ha come scopo l’armoniosità del corpo e lo sviluppo di tutte le facoltà con il fine di essere in grado di fare tutto ciò che si vuole chiedere al corpo. La chiesa deve avere tutte le sue membra sviluppate adeguatamente per poter eseguire ciò che è chiamata a fare. Quindi è vero che ogni credente individualmente è responsabile di crescere fino alle sue piene potenzialità, ma lo scopo, il fine di questa crescita individuale, è l’armoniosità di tutto il corpo. La qualità della vita corporata della chiesa ha a che fare con la sua missione. Ogni credente deve crescere perché il corpo possa operare efficacemente. E il corpo deve essere in efficienza a motivo della sua missione, deve essere in grado di compiere ciò che gli viene chiesto. Ogni credente è impegnato a seguire la propria tabella di “fitness spirituale” non per specchiarsi come quelli del body building, ma perché gioca in una squadra dove la propria competenza è al servizio di tutti e ha per obiettivo la partita. Quindi, ogni credente segue individualmente la propria maturazione spirituale, ma il fine di ciò è la missione complessiva della chiesa.

I ministri della chiesa sono dati per questo compito di formazione: per la crescita e la maturazione del corpo fino al suo completo sviluppo.
Anche qui ci sono alcuni aspetti da sottolineare:
1. nel testo non si parla di ministeri della chiesa, ma dei ministri. Cristo non ha donato alla chiesa una volta per tutte una certa organizzazione (…), ma dona continuamente alla chiesa delle persone che svolgono dei ministeri (cioè dei servizi per la comunità). Questi ministeri non sono guardati dal punto di vista disciplinare o gerarchico, ma dal punto di vita funzionale, somigliano più a degli allenatori (”personal trainers”) che a dei “reverendi”. Non sono dati per essere più in alto gerarchicamente in base alla loro carriera, ma per svolgere un compito in base alla loro esperienza.
2. L’unità della chiesa non consiste nell’uniformità, ma esattamente nella diversità. Questo è un discorso che Paolo fa anche ai Corinzi. Il corpo è tale perché ha molte funzioni, vive per la sua diversità (…) quindi la diversità dei ministeri contribuisce all’unità del corpo (e non ne è un limite).
3. L’elemento essenziale per il raggiungimento di questa armoniosa unità delle diversità del corpo è l’amore. L’edificazione del corpo è fatta nell’amore. Nell’amore significa che la disciplina alla quale ci sottoponiamo per ottenere la nostra crescita spirituale non è disumana, non è a base di steroidi. Anzi, è fatta di fiducia per la persona, di speranza per la buona riuscita, di sostegno nel processo, di incoraggiamento nelle difficoltà, di solidarietà, di conforto. Il credente deve gareggiare con le proprie forze e i propri muscoli, non attraverso qualche stratagemma. Per questo deve vivere in un ambiente adatto alla maturazione, cioè un ambiente dove vige l’amore.
4. Una parte importante di questa formazione è fatta per lasciarsi dietro l’immaturità, l’instabilità e la propensione a credere qualsiasi dottrina che ci pare consona. La stabilità caratteriale ed emotiva sono elementi fondamentali della maturità cristiana. Noi, prima di essere cristiani, siamo persone umane. Lo sfarfallare qua e là in cerca di ciò che fa per noi è contrario alla logica del discorso biblico che piuttosto chiede uno sforzo di trasformazione, di perseveranza, di resistenza affinché noi ci adeguiamo al corpo di Cristo. Il punto qui non è trovarsi bene nella chiesa, ma al contrario sforzarsi di raggiungere la completezza di poter far parte del corpo armonioso di Cristo. La chiesa, più che un circolo ricreativo, è una palestra.

Fin qui il testo. Ma come è organizzata invece oggi la chiesa per quanto riguarda la formazione dei suoi membri? La formazione spirituale dei credenti è organizzata intorno al presupposto che la chiesa chiama le persone a sé: «Vieni qui, entra a far parte, esci dal mondo ed entra nella chiesa; se hai una competenza nel mondo, non offrirla più al mondo, ma offrila alla chiesa» Molti diranno: perché non deve essere così? Non è sempre stato così? No! In verità siamo intrappolati dentro un paradigma culturale, non deve necessariamente essere così e neppure è sempre stato così!
In base al presupposto della chiesa che “chiama”, la nostra formazione risponde alla domanda: «come formiamo dei bravi membri di chiesa?» Il risultato è che formiamo i credenti a vivere sempre meglio nella chiesa e sempre più disadattati nel mondo.Il grande problema di questa impostazione è che induce a pensare che seguire Gesù sia la stessa cosa che essere membri di chiesa e che per essere un buon discepolo devi essere un bravo membro.
Il fatto è che fino ad oggi abbiamo vissuto in una cultura ecclesiastica: esisteva una religione di maggioranza che dava il tono a tutta la società, forniva i valori, i comportamenti e i modi di pensare che erano condivisi da tutti e chi non li condivideva era una “minoranza”. Si era discepoli di Gesù nella chiesa e nella società, le quali corrispondevano una all’altra. Oggi la cultura è cambiata, non esiste più una maggioranza (neanche cattolica in Italia) e non c’è più il fornitore unico di valori, comportamenti e modi di pensare. Essere discepoli in chiesa significa non essere più discepoli nella società. Non ci siamo ritirati noi, si è ritirata l’acqua sotto i nostri piedi e stiamo nuotando all’asciutto. La chiesa è diventata semplicemente irrilevante per la maggior parte della gente.

Quindi c’è bisogno di cambiare questo “paradigma” che abbiamo ereditato e che ci pare l’unico possibile. L’altro paradigma è quello biblico: «Andate dunque e fate miei discepoli tutti i popoli battezzandoli nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo, insegnando loro a osservare tutte quante le cose che vi ho comandate.» (Matteo 28:19-20a) Questo versetto contraddice proprio il presupposto della nostra formazione spirituale e afferma che la chiesa esiste per “andare a fare discepoli”. Non “vieni”, ma “andiamo”. Il presupposto è estroverso. La Bibbia ci chiama ad andare, non a sottrarci. Ricordate sempre questo dato fondamentale biblico: Nella Bibbia è sempre Dio che prende l’iniziativa. Dio ha chiamato le cose all’esistenza, Dio ha chiamato Abramo, Dio ha chiamato Mosè, Dio è entrato nel mondo in Cristo, Dio manda lo Spirito Santo, e Cristo tornerà in Gloria. Dio è entrato nella nostra vita. Non siamo noi, è Dio! Dio si muove, non noi. Noi siamo lo strumento dell’iniziativa di Dio. Siamo noi che dobbiamo andare. «Io devo venirti incontro come Dio è venuto incontro a me».
Quindi il nostro presupposto nella formazione spirituale dei credenti è una chiesa che si organizza per andare nel mondo in risposta fedele al mandato biblico. E la domanda che dobbiamo porci è questa: «come possiamo formare buoni discepoli di Cristo nel mondo?» Non dobbiamo più sottrarci e difenderci dal mondo, ma al contrario prepararci e coinvolgerci. Allenarci e giocare la partita per vincerla.

sabato 15 novembre 2008

Efesini 4:7-16 - Crescere Spiritualmente


La preoccupazione fondamentale della prima parte del capitolo 4 della lettera agli Efesini (che è la parte esortativa della lettera) è duplice: l’unità della chiesa da un lato e la maturità dei suoi membri dall’altro. Questa volta ci soffermiamo solo sulla seconda parte, quella che riguarda la maturità dei credenti.
Il concetto fondamentale che è alla base del nostro testo è che l’edificazione della chiesa corre di pari passo con la maturazione spirituale dei credenti.
La fede cristiana è chiamata alla crescita e la comunità cristiana è l’ambiente favorevole alla maturazione spirituale dei suoi membri.

Lutero diceva che «La fede è una cosa vivente e sempre in movimento». Questa è una verità che deriva dall’esperienza del credente che – quando la cura – vede la propria fede modificarsi, approfondirsi e maturare; e dalla testimonianza biblica, la quale dice che la fede nasce e si sviluppa: «come bambini appena nati, desiderate il puro latte spirituale, perché con esso cresciate per la salvezza» (1 Pie. 2:2) e può giungere fino «all’altezza della statura perfetta di Cristo
Al v. 15 viene fatta una affermazione fondamentale: «ma, seguendo la verità nell'amore, cresciamo in ogni cosa verso colui che è il capo, cioè Cristo
Qui è contenuto il concetto del valore di cui stiamo parlando: la crescita spirituale. L’apostolo ci chiama a crescere «in ogni cosa verso colui che è il capo, cioè Cristo.» La fede deve crescere, non tanto in quantità, ma in qualità, in consapevolezza, in conoscenza, in profondità, in impegno, nella relazione con Dio. Si tratta di una maturazione spirituale che dovrebbe anticipare e guidare anche la nostra maturazione umana fino «allo stato di uomini fatti».
Questa crescita ha due caratteristiche: la prima è che ha una progettualità e un orientamento; non si tratta di una crescita qualsiasi, ma ha una direzionalità, è una crescita in vista di qualcosa: ha come obiettivo Cristo e si persegue seguendo la verità. Ma la verità viene seguita «nell’amore», è precisato. La verità è importante, ma senza l’amore è snaturata. Nella Bibbia, abbiamo avuto modo di dirlo molte volte, la verità è Dio, ma l’affermazione fondamentale è che «Dio è amore.» Verità e amore non possono essere disgiunte senza rendere la verità uno strumento di morte e l’amore un sentimento che fa rima con cuore. La verità non si brandisce come un spada che ferisce tutti quelli che colpisce, ma si offre come un fiore che rallegra ogni cuore che lo riceve.
La seconda caratteristica della crescita spirituale è comunitaria e riguarda la diversità dei doni. Esiste una unità della fede, ma non una unità dei doni, anzi, l’unità del corpo è data proprio dalla diversità e dalla articolazione delle membra. La diversità dei doni costituisce l’idea di unità della chiesa. Una comunità pienamente matura ha molte membra con funzioni diverse che si articolano perfettamente per lo scopo comune dell’intero corpo.

Al v. 7 viene espresso un concetto importante che è al vertice della struttura del ragionamento di Paolo: «a ciascuno di noi la grazia è stata data secondo la misura del dono di Cristo
Che cos’è la “grazia” di cui l’apostolo parla qui?
Nella chiesa, ogni membro ha un ruolo distintivo da giocare per il corretto funzionamento di tutto il corpo. L’abilità di svolgere questo ruolo è chiamato la “grazia”, che è data a ciascuno. Poco sopra Paolo stesso chiama la possibilità di essere apostolo degli stranieri una “grazia”: «A me, dico, che sono il minimo fra tutti i santi, è stata data questa grazia di annunziare agli stranieri le insondabili ricchezze di Cristo» (3:8) e nella lettera ai Romani scrive: «così noi, che siamo molti, siamo un solo corpo in Cristo, e, individualmente, siamo membra l'uno dell'altro. Avendo pertanto carismi differenti secondo la grazia che ci è stata concessa, se abbiamo carisma di profezia, profetizziamo conformemente alla fede» (Rm. 12:5-6). E’ chiaro che la “grazia”, qui, è un ministero, o un dono spirituale: «Infatti, a uno è data, mediante lo Spirito, parola di sapienza; a un altro parola di conoscenza, secondo il medesimo Spirito; a un altro, fede, mediante il medesimo Spirito; a un altro, carismi di guarigione, per mezzo del medesimo Spirito; a un altro, potenza di operare miracoli; a un altro, profezia; a un altro, il discernimento degli spiriti; a un altro, diversità di lingue e a un altro, l'interpretazione delle lingue; ma tutte queste cose le opera quell'unico e medesimo Spirito, distribuendo i doni a ciascuno in particolare come vuole.» (1 Cor. 12:8-11). Quindi il significato di questa frase è: «a ciascuno di noi è stato dato un ministero». Questo ministero è dato a tutti i credenti indistintamente, anche se varia «secondo la misura del dono di Cristo.» Quindi, tutti i credenti hanno un compito da svolgere e questo compito è l’edificazione della chiesa. Ciò non è compito di uno o di pochi, ma di tutti.

Come abbiamo detto, in questo testo non si riesce a districare l’edificazione della chiesa dalla crescita spirituale dei suoi membri, sono due aspetti della medesima cosa, corrono parallele e sono legate l’una all’altra. Maturare significa edificare la chiesa ed edificare la chiesa significa far maturare i credenti. Ma in verità non sono i credenti ad edificare la chiesa. Chi edifica la chiesa è Gesù Cristo: «Da lui tutto il corpo ben collegato e ben connesso mediante l'aiuto fornito da tutte le giunture, trae il proprio sviluppo nella misura del vigore di ogni singola parte, per edificare sé stesso nell'amore.» Il compito de credenti è di crescere verso Gesù Cristo; come il corpo umano nello sviluppo trova le proprie giuste proporzioni, così il credente raggiunge, con la maturità di fede, le giuste proporzioni con il capo del corpo: Gesù Cristo. Cristo è come il nostro DNA che ci fa crescere fino all’armonia completa del corpo. Così non solo è maturato il credente, ma anche la comunità è stata edificata, in un tutt’uno.

Il fatto che l’edificazione della chiesa, nonostante sia un’opera di Cristo, sia un ministero dei credenti, implica un altro fatto: che la comunità cristiana è il luogo dove i credenti insieme sono incamminati in questo percorso di maturazione, e per questo si offrono un servizio reciproco di incoraggiamento, testimonianza e aiuto. Questa strada non si percorre da soli, ma in compagnia di tutti coloro che sono stati invitati a fare questo percorso. Per strada si parla, ci si fa compagnia, ci si scambiano esperienze, si riceve e si dà aiuto, chi sta avanti può avvisare gli altri delle difficoltà, dei pericoli, chi è indietro può ricevere sostegno, chi è stanco può ricevere aiuto. Insomma, la chiesa deve anche essere il luogo favorevole alla crescita spirituale dei credenti. Un ambiente sicuro, amichevole, incoraggiante, solidale, dove la gente impara non solo a diventare cristiano, ma anche a diventare un uomo, una donna.
Il problema dell’uomo moderno non è più la sua capacità tecnologica, ma ormai è diventato il crescere nelle competenze umane e spirituali. L’umanità deve crescere nella saggezza per colmare quella distanza che si è creata tra le nostre competenze tecnologiche e la nostre competenze umane.

Dovremmo cominciare a sentirci chiamati a diventare delle persone migliori, con relazioni umane migliori per edificare un mondo migliore. La chiesa è il luogo dove questo uomo nuovo e mondo nuovo possono emergere.

lunedì 10 novembre 2008

Matteo 28:18b-20 - Il Discepolato come Missione della Chiesa

La chiesa è, per sua natura, estroversa. Essa non chiama a sé il mondo, ma è essa chiamata, da Gesù, ad andare nel mondo. Questa è la sua missione. La chiesa va nel mondo perché è lo strumento dell’iniziativa di Dio a favore del mondo.
Quindi, la preoccupazione maggiore della comunità cristiana è quella di formare dei discepoli di Cristo nel mondo e non semplicemente dei “buoni membri di chiesa”. Essa é una “palestra” di spiritualità; non la tana dove ci si rifugia per sottrarsi alle responsabilità e alla missione verso il mondo, ma il luogo dove si torna per trovare nuova linfa, sostegno, formazione e confronto nella propria missione nel mondo.

Su queste parole di Gesù bisogna dire almeno due cose:

La prima. Tre sono le parole che scandiscono il ritmo di questo mandato e che, in qualche modo, pongono le caratteristiche fondamentali della missione cristiana: «Andate», «Fate miei discepoli», «Insegnando».

La prima caratteristica è quella dell’andare (questo verbo andrebbe tradotto con “andando”, con il significato di “mentre andate”). Uno dei significati della parola discepolo è “seguace”, cioè colui che segue qualcuno. Un antico detto ebraico dice: «Segui il rabbino, bevi dalle sue parole e bagnati nella polvere dei suoi sandali». Questa è l’essenza del discepolato e l’essenza dei discepoli di Gesù: seguire il Maestro, dissetarsi dalle sue parole e camminare così vicino a lui da rimanere impolverati della polvere sollevata dai suoi passi. Gesù disse al giovane ricco: «Tu vieni e seguimi». Essere discepoli in primo luogo significa andare dove va il Maestro, farsi guidare da lui, seguirlo, essere con lui, vivere con lui. Non si può immaginare un discepolo che viva lontano e che segua vie diverse da quelle del suo Maestro.

La seconda caratteristica è quella dell’imparare. Il significato principale della parola discepolo è ovviamente “colui che impara”. Il discepolo “beve dalle parole del Maestro”. La relazione che c’è tra il Maestro e il discepolo è quella che c’è tra chi insegna e chi impara. Il Maestro insegna, il discepolo impara. Da questo si riconosce il vero discepolo: «Se uno mi ama, osserverà la mia parola». Essere discepoli di Gesù significa “essere con lui per imparare da lui ad essere come lui”. Il discepolato non è fatto per rimanere come si è. E non si può immaginare un discepolato che non implichi la trasformazione del carattere e della vita del discepolo.

La terza caratteristica è quella dell’insegnare. Il discepolo non solo segue il Maestro, non solo impara da lui, ma anche insegna ad altri ad essere discepoli. Con la sua esperienza di discepolo può insegnare ad altri ad esserlo. Gesù stesso ha detto: «Chi ascolta voi ascolta me; chi respinge voi respinge me, e chi rifiuta me rifiuta Colui che mi ha mandato». C’è una specie di “cinghia di trasmissione” della parola da Dio fino all’ultimo discepolo. Essere discepoli è una esperienza che deve essere trasmessa. L’insegnamento è primariamente un insegnamento all’ubbidienza: «a osservare tutte quante le cose che vi ho comandate». Non si può scindere il discepolato all’ubbidienza, ed è questa ubbidienza, tanto difficile da ottenere, che va insegnata.

C’è da aggiungere una cosa, al riguardo del discepolato, che ci viene dal contesto. Gesù stesso incapsula il versetto 19, dove dice: andate, fate discepoli, insegnando … all’interno di una cornice. L’inizio del detto di Gesù è: «Ogni potere mi è stato dato in cielo e sulla terra» e alla fine conclude: «Ed ecco, io sono con voi tutti i giorni, sino alla fine dell'età presente». Questa cornice è molto importante, perché stabilisce un cosiddetto “paradigma”, cioè un quadro di riferimento all’interno del quale le parole dette hanno un significato e un potere. Ossia, quelle parole di Gesù sono concepibili solo all’interno di quel quadro di riferimento. Questo quadro è costituito da un lato dal potere di Cristo che gli è stato dato in cielo e sulla terra, e dall’altro dalla presenza di Cristo con i discepoli per sempre. Senza questo potere e questa presenza di Cristo, il suo mandato sarebbe per noi velleitario. Un autore dice che le promesse che Gesù ha fatte per questo tempo fino al suo ritorno, sono fatte precisamente ai suoi discepoli. Chi non è suo discepolo e legge queste promesse come se fossero rivolte a lui è come qualcuno che tenta di incassare un assegno che non è suo: è una cosa che riesce raramente!

La seconda cosa che bisogna dire di questo testo. Il comandamento che riceviamo da Gesù è: «Fate miei discepoli». In questo grande mandato di Gesù il verbo all’imperativo – cioè quello che contiene il comando – è solo questo «fate miei discepoli». A rigor di termini, tutti e tre i verbi compongono il mandato di Gesù, ma solo quello centrale rappresenta un comandamento. Quindi, il comandamento di Gesù risorto ai suoi discepoli è uno solo: «fate miei discepoli»; gli altri due verbi ci dicono come: andando e insegnando. Qui non c’è scritto né “salvate ogni persona umana”, né “salvate il mondo”; ma solamente «fate miei discepoli». Ciò che viene messo in risalto è il discepolato stesso, cioè la relazione dei credenti con il loro Signore. C. S. Lewis (l’autore di “Le cronache di Narnia”) ha scritto che la nostra fede non è questione di ascoltare quello che Cristo ha detto tanto tempo fa e cercare di metterlo in pratica. Piuttosto, la fede consiste nell’avere il vero Figlio di Dio al nostro fianco che cerca di trasformarci nello stesso tipo di persona che lui è. Per così dire egli inocula la sua vita eterna in noi e noi veniamo trasformati in persone vive della sua vita. Ciò è possibile solo in questo stretto discepolato.

La terza cosa che bisogna dire di questo testo. Insegnare l’ubbidienza è parte integrante del discepolato. La trasformazione del nostro carattere e della nostra vita è parte integrante del messaggio di salvezza. Oggi la chiesa si è abituata al rapporto “clientelare” con i propri membri. Molti di quelli che fanno parte della chiesa, o semplicemente la frequentano, hanno un rapporto con la chiesa e non con Cristo. Per molti la chiesa è “interessante” culturalmente e socialmente, per altri l’aver creduto a Gesù non è significato una vera trasformazione della vita, è stato un rapporto (per mille ragioni) terminato prematuramente. La fede cristiana è una grandiosa opportunità di cambiare il nostro carattere e il modo in cui viviamo la nostra vita che non viene sfruttata. Questo non significa che solo i discepoli verranno salvati. Ma io mi chiedo: “come farà una persona amareggiata, con il cuore gonfio di risentimento e di rabbia, incapace di perdonare, disabituata ad amare gratuitamente e senza ritorno, a vivere in paradiso?” Non è solo una questione di salvezza per grazia, ma anche una questione di “essere pronti a vivere col Signore”. Siamo sicuri che chi va con il Signore sarà automaticamente capace di viverci? Vivere come discepoli significa imparare a vivere accanto al Signore.

Quindi, come si “fanno discepoli di Cristo”?
Prima di tutto per fare discepoli bisogna essere discepoli. Questo comandamento di Gesù ci chiede, se non l’abbiamo già fatto, di diventare discepoli per poter fare discepoli. E per fare questo dobbiamo agire su quelle idee che ci prevengono dal diventare discepoli e di usare questa introspezione per poter fare una esperienza utile per parlare a coloro che vogliamo diventino discepoli di Gesù.
se volessimo usare un motto per questo testo potremmo dire così: “Nel proprio discepolato, fare discepoli educando al discepolato”.
Il discepolato ha come obiettivo la trasformazione, questa è la parola chiave.
· Il discepolato vuole cambiare il carattere delle persone, le loro idee, i loro valori negativi che rendono la nostra vita privata miserabile.
· Vuole cambiare il modo in cui viviamo la nostra vita, i nostri stili di vita eccessivi, egoistici e distruttivi che minano le nostre relazioni umane.
· Vuole, in definitiva, cambiare il mondo e le sue regole inique, ingiuste, che tolgono la pace e distruggono la terra, per ristabilire l’equilibrio sano e felice della creazione.
Il discepolato significa: “essere con lui per imparare da lui ad essere come lui”.

martedì 4 novembre 2008

Geremia 29:4-7 - Da chiese generiche a comunità incarnate


Se noi volessimo spiegare il senso del testo di oggi con una sola frase potremmo dire che “la geografia della salvezza è cambiata”. L’esilio babilonese è stato come un terremoto che ha cambiato per sempre il contesto della fede d’Israele. La profezia di Geremia fa quattro affermazioni sconvolgenti, destinate a modificare permanentemente l’atteggiamento di fede degli israeliti.

La profezia afferma che dietro l’esilio del popolo d’Israele a Babilonia c’è Dio. «Così parla il Signore degli eserciti, Dio d'Israele, a tutti i deportati che io ho fatto condurre da Gerusalemme a Babilonia». Questo significa che Dio non si è mostrato come il liberatore d’Israele, ma esattamente come suo oppressore. Contro tutta la tradizione biblica fino a quel momento, Dio si manifesta non come redentore d’Israele, ma come suo giudice. Il profeta Geremia, per questo, verrà additato come un falso profeta.
Si tratta di un’affermazione radicale e di una durezza inconcepibile per il popolo di Dio che la riceve. Soprattutto, qui c’è la condanna, ma non c’è la colpa. Perché questo giudizio così duro? Quale è stato il peccato del popolo che ha fatto meritare un tracollo di questa portata? Forse si potrebbe andare a leggere qualche pagina precedente del profeta per capire il peccato del popolo, ma rimane il fatto che la profezia stessa manca dell’affermazione del peccato del popolo, cioè manca di una giustificazione. Dio aveva già in passato punito il popolo per il suo peccato, questo Israele era pronto a capirlo, ma ora non viene detto perché! E’ cambiato qualcosa nella sua relazione con il suo popolo? Tutto ciò è inaccettabile per il popolo, ma Geremia lo chiama ad accettare questo giudizio.
Col senno di poi, noi possiamo però vedere che attraverso l’accettazione di questo giudizio così incomprensibile, Dio sta guidando il suo popolo verso l’adempimento della promessa fatta ad Abramo: «in te saranno benedette tutte le famiglie della terra». E’ dalla diaspora babilonese che nascerà il giudaismo del tempo di Gesù, nell’alveo del quale nascerà il cristianesimo. E’ chiaro che, comunque, con questa profezia il panorama della fede d’Israele cambia radicalmente e per sempre

La profezia afferma che Israele deve vivere a Babilonia come se vivesse nella terra promessa. «Costruite case e abitatele; piantate giardini e mangiatene il frutto; prendete mogli e generate figli e figlie; prendete mogli per i vostri figli, date marito alle vostre figlie perché facciano figli e figlie; moltiplicate là dove siete, e non diminuite.» Anche se può non sembrare così, in questa profezia Geremia sta offrendo una speranza e una precisa indicazione di come il popolo dovrà vivere in questa situazione completamente mutata. “Se Dio ha così radicalmente cambiato il suo atteggiamento verso di noi”, si chiede il popolo, “come possiamo vivere qui?” Molti falsi profeti, non avendo appunto una vera visione, vedevano una sola possibilità: che Dio avrebbe fatto tornare subito il popolo a casa. E il loro messaggio era contrario a quello di Geremia, cioè incoraggiava gli israeliti a non adattarsi e a tenersi pronti per tornare (il messaggio più ovvio, quello più biblico e teologicamente coerente). Il popolo era in grande sofferenza, tenuto sulle braci da una leadership cieca che non riusciva a capire realmente cosa stava accadendo.
Anche se questo non era ciò che il popolo voleva ascoltare – cioè che l’esilio sarebbe stato lungo – nondimeno la profezia dà una precisa indicazione al popolo: “piantate le tende, rimarremo qui!” (i falsi profeti non sapevano dare alcuna indicazione di cosa fare). Ma non solo questo, Geremia offre anche una speranza al popolo; tre versetti più in là nella stessa profezia Geremia dice: «Infatti io so i pensieri che medito per voi», dice il Signore: «pensieri di pace e non di male, per darvi un avvenire e una speranza.» (v. 11), cioè, il vostro avvenire è nelle mani sicure e benevole di Dio che non mancherà di farvi conoscere le sue benedizioni (come effettivamente avverrà).
Geremia dice: “vivete come se foste a Gerusalemme”. Facile a dirsi, ma come si fa? A Babilonia manca tutto: non solo non è la terra promessa, ma manca il regno davidico, manca Gerusalemme dove si sarebbero compiute tutte le promesse, manca il tempio per i sacrifici. Come si può rimanere fedeli a Babilonia? Ma grazie alla profezia di Geremia, gli israeliti a Babilonia faranno nascere un nuovo modo di essere ebrei. Inventeranno la sinagoga; emergerà una nuova leadership, i farisei; e la fede sarà fondata sulla legge e non più sul tempio. A Babilonia nasce il giudaismo.

La profezia afferma che Dio ama i babilonesi. «Cercate il bene della città dove io vi ho fatti deportare, e pregate il Signore per essa». Anche questa affermazione arriva come una doccia fredda. Israele non è l’unico popolo di cui Dio si prende cura e che benedice. Yahwe non è l’idolo di una piccola nazione del Medio Oriente di cui solo si prende cura, ma è l’iddio creatore del cielo e della terra, colui che guida i popoli e la storia. Dio ha stretto un patto d’alleanza eterno con Israele, ma tuttavia il mondo e i popoli rimangono suoi. Dio ha eletto un popolo come sua eredità particolare, ma non ha abbandonato tutti gli altri a loro stessi. Certo, Babilonia non lo riconosce, ma nondimeno egli è il loro Dio. Nessuno ha il monopolio su Dio, nemmeno Israele (né la Chiesa). Dio è un Dio universale.

La profezia afferma che Israele ha una missione a Babilonia. «Dal bene di questa dipende il vostro bene». E’ venuto il momento che Israele comprenda ed attui il suo mandato, quello che era all’origine della vocazione di Abramo: «in te saranno benedette tutte le famiglie della terra». Questo include Babilonia. Israele, come il profeta Giona, è trascinato alla sua missione.
Vorrei che fosse chiara l’entità dello sconvolgimento a cui è stata sottoposta la fede d’Israele: Dio è un Dio universale; la sua promessa è per tutte le famiglie della terra; Israele viene inserito in un panorama totalmente cambiato e deve trovare nuove forme di fedeltà, la sua è diventata una missione. Davvero la geografia della salvezza è cambiata!

Io credo che oggi, come per Israele durante l’esilio babilonese, sia cambiata la geografia della salvezza. Nuovi approcci sono necessari. Israele è uscito dall’esperienza dell’Esilio profondamente cambiato e forse anche noi siamo chiamati a dei cambiamenti radicali. Si tratta di avere un impatto sulla società.
Parlare di impatto ci costringe a considerare gli effetti della nostra missione complessiva, che riguarda tanto l’evangelizzazione quanto la diaconia, tanto la conversione quanto la liberazione. Parlare di impatto ci costringe anche a concepirci all’interno di una missione complessiva dove non c’è chi predica e chi serve, ma ci sono solo discepoli che vivono l’evangelo in parole ed azioni in un rapporto stretto col Signore.
Questo impatto è all’interno della strategia di Dio per la salvezza del mondo: la cospirazione divina.
La consapevolezza che come credenti noi siamo cittadini del regno di Dio (come Israele che scopre di essere diventato cittadino babilonese) ci porta in una situazione completamente mutata che richiede decisioni nuove. Se vogliamo applicare alle comunità evangeliche la profezia di Geremia, dobbiamo dire che dobbiamo passare dall’essere comunità generiche all’essere comunità incarnate. Forse dietro questi grandi cambiamenti sociali che riguardano la chiesa, alcuni dei quali dolorosi, c’è la mano di Dio; forse dobbiamo cominciare a vivere come cittadini del regno di Dio; forse dovremmo riconoscere che Dio non ama solo la chiesa, ma ogni uomo e ogni donna; forse il bene del mondo è anche il nostro bene e noi abbiamo un compito qui.
Per questo motivo credo che dovremmo cominciare a ragionare più che nei termini della crescita della chiesa, cosa che ci spinge ad una evangelizzazione aggressiva e superficiale; più che nei termini della presenza nella società, che ci spinge ad una lotta ideologica e antagonistica; dovremmo parlare nei termini della crescita del regno di Dio nel mondo, diventando comunità incarnate e rimettendo al centro del nostro discorso il discepolato.