sabato 26 dicembre 2009

Carta per la compassione

Il principio della compassione risiede nel cuore di tutte le tradizioni religiose, etiche e spirituali, e ci chiede di comportarci con gli altri nello stesso modo in cui vorremmo che gli altri si comportassero con noi. La compassione ci spinge senza tregua ad alleviare la sofferenza delle persone, ci fa scendere dal trono posto al centro del nostro mondo per far sì che qualcun’altro possa salirci, ci fa onorare l’inviolabile santità di ogni essere umano, trattando tutti allo stesso modo, senza eccezioni, con assoluta giustizia, equità e rispetto.

E’ altresì necessario, sia nella vita pubblica che in quella privata, trattenersi in modo empatico nell’infliggere dolore. Agire o esprimersi in modo volutamente violento; comportarsi da sciovinisti; concentrarsi sui propri interessi; impoverire, sfruttare o negare i diritti che sono alla base della vita degli esseri umani e incitare all’odio denigrando gli altri – anche se nemici – tutto ciò equivale alla negazione della nostra umanità. Sappiamo di aver fallito nel vivere una vita compassionevole e sappiamo che qualcuno ha persino incrementato la miseria umana in nome della religione.

Per questo chiediamo a uomini e donne

~ di ristabilire la compassione al centro della moralità e della religione

~ di ristabilire l’antico principio secondo il quale sono illegittime le interpretazioni della scrittura in cui si incita alla violenza, all’odio o al disprezzo

~ di assicurare ai giovani un’informazione dettagliata e rispettosa sulle tradizioni, sulle religioni e sulle culture

~ di incoraggiare una visione positiva della diversità culturale e religiosa

~ di essere empatici con chi soffre – persino con chi consideriamo nemico.

In questo nostro mondo polarizzato bisogna urgentemente trasformare la compassione in una forza chiara, luminosa e dinamica. Radicata nella determinazione di trascendere l’egoismo, la compassione può rompere tutti i confini politici, dogmatici, ideologici e religiosi. Nata dalla nostra profonda interdipendenza la compassione e’ essenziale per le relazioni umane e per una piena umanità. E’ il percorso verso la chiarezza ed e’ indispensabile alla creazione di una giusta economia e di una comunità globale pacifica.

lunedì 14 dicembre 2009

Segnali di emergenza - 2

I credenti sono sempre meno attenti alla crescita della chiesa e sempre più sensibili alla trasformazione del proprio ambiente vitale. L’evangelo non è per restare seduti sulle panche, ma per battere le strade. La domanda non è più “come posso far crescere la chiesa”, ma “come posso far crescere il regno di Dio”. L’obiettivo della missione è sempre meno chiamare le persone in chiesa, chiamare le persone a Cristo, e sempre più andare dalle persone, portare Cristo. L’intento evangelistico è sempre meno invitare le persone in chiesa e sempre più infiltrarsi nella società. L’evangelizzazione non è più uno dei programmi della chiesa accanto agli altri, ma è il senso stesso della chiesa che informa ogni sua attività (la chiesa è “missionale”). Gli stessi membri di chiesa dividono i loro contributi tra la chiesa e le altre agenzie di aiuto sociale e molte chiese preferiscono diminuire il contributo alla denominazione per finanziare progetti laici locali come testimonianza della loro presenza sul territorio. Molti vedono la pulizia asettica delle chiese in stridente contrasto con la sporcizia e il degrado delle periferie e una patente contraddizione con la capacità di Gesù di sporcarsi che emerge dai vangeli.

venerdì 27 novembre 2009

Segnali di emergenza - 1

Troppo spesso chi si converte, invece di trovare Cristo, finisce in una chiesa. Sempre più persone lasciano le comunità per preservare la loro fede; sentono che la chiesa non contribuisce più alla loro crescita spirituale, né rappresenta un conforto nei momenti difficili della vita. Si stima che il 5% dei cristiani a livello globale debbano essere considerati senza affiliazione, “post-congregational” nei termini della sociologia ecclesiastica statunitense e che questa percentuale raddoppierà entro quindici anni. I programmi e le attività delle chiese sono giudicati inadeguati ad incontrare la nuova richiesta di genuina vitalità spirituale. Chi si converte vuole trovare una esperienza trasformante (cioè vedere la propria vita trasformata, la propria città cambiata, il proprio contributo valorizzato, il proprio spirito curato, la propria competenza umana accresciuta, ecc.). L’appello cristiano è alla conversione a Cristo e le chiese devono mantenere questa promessa.

lunedì 9 novembre 2009

Caratteristiche ecclesiologiche emergenti (parte II)

La conoscenza e la riflessione teologica è maggiormente distribuita. Come nel cloud computing, la conoscenza non viene “salvata” centralmente sull’hard disk, ma on line, ed è disponibile a quanti vogliono accedervi. Questo significa che sta cambiando radicalmente il modo di relazionarsi alla “verità”. La conoscenza e l’esistenza teologica non risiedono esclusivamente nel mondo accademico, l’unico ad averne la chiave di accesso; ma la riflessione teologica diventa una esperienza condivisa (come avviene con Wikipedia). La chiesa è open source, chi è in grado di dare soluzioni praticabili e condivise ai problemi teologici che si affacciano riceve il riconoscimento dell’autorevolezza (come avviene con Google). Questa “conoscenza corporata” può avvenire solo se tutti sono connessi.

La guida delle comunità è dei “visionari”. Nelle chiese emergenti l’ambiente determina le decisioni. In questa situazione il ruolo della leadership è quella di aiutare la comunità a cambiare la percezione di una situazione. I leader non “annunciano” il cambiamento, ma provvedono le risorse per il cambiamento, in modo che questo dalla base arrivi al vertice. La leadership traccia linee, facilita la comunicazione con l’esterno, connette le persone, collega programmi e attività, e riceve il feedback per un nuovo circolo ermeneutico.

lunedì 2 novembre 2009

Caratteristiche ecclesiologiche emergenti (parte I)

· Le chiese diventano dei “sistemi aperti”. Si percepisce una maggiore apertura verso l’ambiente circostante e il contesto culturale. I confini tra “dentro” e “fuori” la chiesa o tra la vita comunitaria e la vita cittadina sono meno delineati. Questo porta maggiore possibilità di contaminazione e quindi di maggiore squilibrio, ma in generale le chiese sanno essere più sensibili verso quanto avviene nella società circostante e nella cultura, e quindi anche più reattive nel rispondere alle sollecitazioni e in definitiva con maggiore possibilità di incidere positivamente.

· Le chiese sembrano più adattabili. Per il motivo di cui sopra, il genio delle chiese emergenti è di essere molto radicate localmente. Chiese molto simili, anche nella stessa città, possono essere organizzate in modi molto diversi proprio per la loro apertura e capacità reattiva. Questo significa un alto grado di dipendenza della chiesa dal contesto culturale e sociale che la ospita e un alto grado di localismo (non di tipo tribale come lo conosciamo oggi, ma di tipo incarnazionale).

· Le chiese sono più pronte al cambiamento. Qui si vede il circolo virtuoso in cui sembrano inserite alcune chiese: sensibilità all’ambiente, adattabilità, cambiamento e infine capacità di incidere socialmente e culturalmente. Le chiese sono in grado di “imparare”. I piccoli miglioramenti nel ministero comunitario diventano esperienza e patrimonio “in rete”; non si riflette sui cambiamenti da apportare al livello denominazionale (“esperti” che vengono raccolti in “comitati” che producono “documenti” che le comunità “studiano” per poterli poi “applicare” nella propria realtà), ma ogni team pastorale ha la responsabilità, localmente, per il proprio ministero, di apportare tutti i miglioramenti necessari. Sono queste innovazioni di basso profilo che, sul lungo periodo, hanno prodotto, per il loro effetto cumulativo, cambiamenti radicali nella configurazione della chiesa e del suo ministero. Quindi:

o Capacità di ricevere, comprendere ed interpretare i segnali provenienti dall’ambiente

o Capacità di rispondere creativamente attraverso nuove caratteristiche organizzative

o Capacità di influenzare l’ambiente esterno in modo reattivo e creativo

lunedì 26 ottobre 2009

La missione cristiana nella società postmoderna (Mark Ord)

Fra il 5 e il 9 ottobre si è tenuto il primo Baptist Theological Colloquium of Rome presso i locali della chiesa Battista di Teatro Valle. L'iniziativa, promossa dall'UCEBI e la Lott Carey Mission Convention negli Stati Uniti, ha portato teologi e pastori nord-americani, canadesi e italiani insieme per una settimana di discussioni e confronto sul tema: “La Missione della Chiesa in una Società Secolarizzata”. Questi momenti di dialogo sono stati abbinati a visite a luoghi di importanza storica per le chiese cristiane, come ad esempio l'itinerario di San Paolo a Roma e ai Musei del Vaticano.

La discussione e riflessione sono state alimentate dalla presentazione di quattro relazioni. “La Missione Cristiana nella Cultura Postmoderna” presentata dal pastore Italo Benedetti, ha descritto le sfide che le chiese affrontano mentre la società cambia da una paradigma moderno a quello post-moderno. In questo spostamento culturale la gente affronta le questioni di conoscenza e autorità secondo criteri non più di logica e razionalità, ma di una pluralità di narrative ed esperienze. Italo Benedetti ha poi descritto una chiesa emergente, meno preoccupata di struttura e appartenenza e più interessata di questioni di formazione spirituale e umana e la missione di Dio nel mondo.

La professoressa Joyce Bellous della McMaster University in Ontario, Canada ha parlato sulla “Missione in una Età Spirituale”. È partita dalla convinzione che tutte le persone sono spirituali e ha affermato che le chiese, a livello di cura pastorale e missione, farebbero bene ad essere più attente alle diversità di stili o linguaggi spirituali che caratterizzano le persone. La dott. Bellous ha identificato quattro stili, come quelli centrati sulla parola, sull'emozione, sul simbolico e sull'azione e ha sviluppato una risorsa per evidenziare le varie espressioni di spiritualità, mirata ad aiutare le comunità a diventare più alfabetizzate nei vari linguaggi spirituali e quindi più in grado di affrontare e risolvere i conflitti.

Il dott. Douglas Summers ha descritto una gamma di problematiche etiche che si presentano oggi mentre i progressi scientifici e tecnologici e le nuove configurazioni di rapporti umani e le nuove espressioni di sessualità offrono nuove possibilità per la vita e allo stesso tempo sollevano nuovi dilemmi. Nella sua relazione “Etica: la Ricerca della Vita”, ha discusso la tensione tra aderire a principi solidi ed essere comunità che esprimono la compassione di Dio; concludendo che le chiese, nell'affrontare le questioni etiche, si rapportano con persone in situazione di sofferenza e che quindi la priorità delle chiese dovrebbe essere quella di manifestare l’aperta misericordia di Dio.

Il pastore Massimo Aprile nell'ultima relazione intitolata; “il Vangelo per la Nuova Generazione”, ha commentato l'impatto che le nuove tecnologie e i cambiamenti nel vissuto famigliare hanno sui giovani di oggi, notando che questi hanno spesso un percorso di vita più complesso rispetto alle generazioni precedenti. Ha descritto una gioventù caratterizzata da relativismo culturale, nichilismo, e la ricerca di identità in un contesto pluralistico in cui il sé viene sperimentato come frammentato piuttosto che come un centro unificato. Ha affermato il bisogno di stabilire relazioni con i giovani piuttosto che semplicemente tentare di offrire programmi; e la necessità di articolare la fede in una maniera che lasci spazio per le incertezze quando parla di impegni che coinvolgono tutta la vita.

Le differenze culturali e a volte teologiche, insieme alle sorprendenti somiglianze delle problematiche affrontate in contesti che variavano da Texas a Torino passando per la multi-culturalità di Toronto, la grintosa realtà urbana di Baltimora e una serie di contesti italiani, hanno contribuito ad una serie di discussioni vivaci e molto stimolanti. Molti pregiudizi sono stati abbattuti, amicizie costruite e un dialogo che ammetteva punti di vista a volte molto diversi e poi sorprendentemente molto simili. Ovviamente, nessuno dei problemi affrontati nelle relazioni e nelle discussioni è stato risolto; le tensioni e le problematiche delle società e delle chiese rappresentate non permettono di facili risoluzioni. Lo scambio di idee, di esperienze, di strategie e anche di indirizzi e-mail, però, significa che si affrontano in modo diverso, chissà se più creativo e con un po' più speranza ed energia.

lunedì 12 ottobre 2009

Documento finale del Colloquium

In a week dedicated to the theme; Christian Mission in a Secularised Society, we heard four papers which introduced us to four areas of concern and themes for discussion.

Christian Mission in a Secularised Age

The opening paper, Christian Mission in a Post Modern Culture, presented by Italo Benedetti, challenged us to consider the changing world in which we live and painted a picture of the current church. It pointed to the crisis of the church in attempting to respond to its rapidly changing context, as the world around it moves from a modern to a post-modern paradigm. The issues of this bumpy transition that most affect the church were around how people deal with knowledge and structure. From doctrine, through catechism onto church membership there is an articulation of rationality that no longer holds. Narratives have usurped propositions and diversity and experience have sidelined logic. He outlined the characteristics of the emerging church, less concerned with structure and more with spiritual formation, in which the questions have changed; from: how can I help my church grow? To; how can I contribute to the Kingdom's growth?. Italo concluded that a certain type of church and Christian expression was in demise: the fact that it is our expression rendered the question urgent. The church, he claimed, must accept transforming change and go through a transition that will at times be painful. Leaders may have to settle for the role or Isaiah and Jeremiah at the time of the exile; that of allowing the change to happen through small experiments.

In his response Laurie Barber affirmed that there is a hunger for God in people's hearts; that the crisis is not about Christianity, but Christendom. He also noted usefully that the cultural changes that the paper outlined where given poignancy by the experience of cross and multi cultural mission of many churches in the world today. Migration is changing the church. Laurie appreciated aspects of the new paradigm that led us back to understanding that the church is not the point, but the means to the end of God's mission. This mission will move us. We do not make it happen, but participate with God prayerfully, as conduits of the Spirit's work.

The wide-ranging discussion followed many threads. There was broad consensus that we are well into changeful times and that the paper had offered a helpful description of both older and emerging paradigms and something of the tensions and aspirations involved in the transition. This paradigm shift was in the main considered an opportunity, rather than simply a threat, though there was some questioning about whether history could be chartered in such a linear fashion. There was general agreement that the church needs to turn from being focused on its own processes and programs and move out into the wider communities and the wider world with a holistic gospel message, meeting people where they are.

Mission in a Spiritual Age

In her presentation Dr Joyce Bellous stated that all people are spiritual and asserted that churches could be more effective in both congregational health and mission if they were attentive to people's varying spiritual “styles”. A great deal of church conflict could thereby be alleviated. The four spiritual styles are identified as: word centered, emotion centered, symbol centered and action centered.

Church education can help churches towards literacy in these various languages of expression. Joyce has developed a Spiritual Styles Assessment tool for both adults and children to help them better understand themselves. Balancing all the styles helps to develop holistic environments that value and include everyone and so enrich the work of mission.

Sandro Spanu in his response made parallels between the paper and Romans 12: 3-5 underlining the image of the church as a body. He stated that “a church that evaluates different spiritualities operates already as a church in mission”. A church is called to practice communion with God and to build community while managing the differences expressed in the group.

A number of different discussion threads emerged. For instance, who decides which styles predominate, the pastor, the assembly? If the pastor is decisive what happens when she or he changes? The ideal was expressed as the “self-reflective pastor in happy standing with the church”. Do denominations reflect one predominate spiritual style or should services attempt to offer meaningful expression for all spiritual styles or languages? The answer to this question is important as the spirituals styles that find expression in a church will influence a church's engagement with the world around it. This tool was considered very useful for dealing with differences and conflict in the church. Conflict could be due to difference of spiritual language and alleviated by churches becoming more literate in the styles that Joyce has outlined. Such literacy could help in the church's mission as it could help translate people's less articulate search for spirituality and include people whose “style” was not the dominant one. There were some questions about how meaningful it was to say all people were spiritual, but the model did stress the often forgotten need to listen to people and hear what is their notion of God, before introducing these “idiosyncratic” notions to our experience of God as met in the scriptures.

Ethics: a Quest for Life.

Ethical questions continue to emerge as we are called to interpret life in a world that is constantly changing. Dr. Douglas Summers described a range of life and death issues that come into focus as medical and scientific advances offer new possibilities and dilemmas and as relationships and sensuality are redefined. In his paper Douglas noted the challenge facing the church of holding certain principals whilst being compassionate. He stated that in most of these questions we are relating to people in pain and therefore compassion is the priority.

In his response Martin Ibarra affirmed the approach of focusing on the pain and needs of real people rather than on judgments and universal prescriptions. As human persons we are defined and formed by the network of relationships in which we life and therefore life or the ethical questions surrounding life cannot be reduced to easy definitions. As churches we should be aware of the pain we have caused many people due to heavy judgments and easy answers given to difficult questions and should put these into tension with the open mercy of God. Life is a gift from God and we are charged with the responsibility to keep it human as we look for ways to live well.

Much of the discussion centered on the question of the sources of authority for ethical decision making; the relationship between scripture, science and living documents – the biographies of people we encounter and our own struggles. We also noted the missional aspect of ethics; as both witness to the gospel and engagement with people who often needed help in the circumstances of their lives. We discussed whether ethics was primarily an internal discussion for the church, focusing on formation of believers or whether it was a public exercise of offering answers or at least opinion in public debate. In this context we discussed whether scripture should be more usefully considered a resource for missional communities rather than a source of authority for our ethics.

The Gospel for the New Generation

Massimo Aprile defined youth as the “age in between” childhood and adulthood. He highlighted the impact of technological shifts and changing family patterns on young people, noting that their life's journey was more complex than that of previous generations. He noted that youth is characterized by cultural relativism, nihilism, and a search for identity in a pluralist context in which the self in experienced as fragmented, rather than a unified centre. Massimo proposed a response based on relationships rather than church programs. He also suggested that the biblical notions of promise and faith were useful in the quest for identity as resources since they leave space for uncertainty and at the same time call for commitment. He also brought to bear the tension of fullness and self-emptying expressed in our thinking on Christ in the cross and resurrection on the experience of nihilism in modern culture.

In his response Dr. Randy Wood affirmed the paper's description of the circumstances in which young people find themselves today. He added that churches had a role to play in their educational work of preparing children to be able to navigate the often difficult terrain of adolescence. Through tutoring on a range of practical and social skills the church could exercise a positive role in children's lives. He said that like Scrooge, in Dickens's Christmas Carol, we had seen a glimpse of the future and had the opportunity to change things for the wellbeing of the children amongst whom we live and minister.

In our discussions we noted that the description offered by Massimo described the life experience of diverse generations today. We reflected on the process that we undergo from belief – unbelief – committed belief, and the feeling that many people easily get grounded at the point of unbelief. The example of organizations, such as Greenpeace, with a strong hierarchy and clear directions shows how these things appeal to young people who often feel the lack of coordinates in their lives. We reflected on the need to share authentic stories, including those of loss and recovery. There was general agreement of the importance of hope and relationships in our ministry to young people.

lunedì 28 settembre 2009

Convegno "emergente" a Roma!

North American Baptist Fellowship & Unione Cristiana Evangelica Battista d'Italia

International Baptist Theological Colloquium
"Christian Mission in the Postmodern Society"

Teatro Valle Baptist Church
October 5th-9th 2009 - Rome


Program:
Oct. 5th - Italo Benedetti: "Christian Mission and Postmodern Culture"
Oct. 6th - Joyce Bellous: "Mission in a Spiritual Age"
Oct. 7th - Doug Summers: "Christian Ethics: a Matters of Life"
Oct. 8th - Massimo Aprile: "The Gospel for the New Generation"
Oct. 9th - Conclusions

mercoledì 23 settembre 2009

Brevissima storia del fondamentalismo

Verso la metà dell’800 l’evangelismo americano cominciò a spaccarsi tra liberali e conservatori. Ai primi del ‘900 la frattura si consolidò in due campi, quello del Federal Council of Churches (poi chiamato National Council of Christian Churches), formalmente istituzionalizzato nel 1908, e quello che si coagulò nel movimento fondamentalista. Le linee di divisione non erano chiare, si può dire che i liberali tendevano ad interessarsi ai temi sociali, mentre i fondamentalisti si preoccupavano maggiormente della moralità privata. Nel 1913 una serie di opuscoli furono pubblicati con il titolo complessivo di The Fundamentals, da cui prese nome il movimento. La divisione tra liberali e fondamentalisti era sostanzialmente una questione interna alle denominazioni. Con lo Scopes trial, il cosiddetto “processo alla scimmia” che a Daytona contrappose William Jennings Bryan a John Scopes sull’insegnamento della teoria darwinista nella scuola, iniziò il lungo periodo delle controversie denominazionali che opposero i due schieramenti. I modernisti, come venivano chiamati allora i liberali, ebbero la meglio su ogni controversia e alla fine estromisero i fondamentalisti da tutte le posizioni denominazionali. In più, i fondamentalisti furono coperti di ridicolo dalla stampa nazionale. Essere fondamentalista era diventato imbarazzante. In questo periodo nacquero anche alcune denominazioni fondamentaliste che raccoglievano le chiese fuoriuscite dalle denominazioni nazionali e le chiese indipendenti formate dagli evangelizzatori; ma la stragrande parte dei fondamentalisti non abbandonò le denominazioni, entrando in una specie di clandestinità. I legami erano tenuti e rafforzati nelle conferenze missionarie, nelle scuole bibliche e nei seminari, nelle agenzie missionarie e nelle istituzioni paraecclesiastiche. Tutti erano convinti che del fondamentalismo non se ne sarebbe più sentito parlare.

La parte contata come liberale nelle denominazioni non era però veramente tale. In verità, a parte qualche militante, da annoverare di solito tra gli intellettuali o i dirigenti ecclesiastici, la massa delle chiese era di sentimenti evangelici molto simili a quelli in voga prima della separazione. Inoltre, molti di coloro che si ritrovarono dalla parte dei fondamentalisti cominciarono ad avere a noia gli atteggiamenti rigidi tipici della propria leadership e presero a distanziarsene. Nel 1940 nacque l’American Council of Christian Churches che raccoglieva i fondamentalisti più intransigenti e l’anno successivo nacque la National Association of Evangelicals che raggruppava i moderati. Da quest’ultima nacque il fenomeno dell’evangelicalismo. Dopo la Seconda Guerra Mondiale Harold Ockenga, Carl F. H. Henry e Billy Graham cominciarono a dare visibilità ad un movimento in crescita vertiginosa con una capacità strategica esemplare (Wheaton College, Fuller Seminary, InterVarsity Press, Christianity Today, radio e televisione, ecc. oggi tutti luoghi di eccellenza teologica), dimostrando di essere «una forza capace di mutare significativamente la cultura, o sintomatica di un cambiamento significativo nella dinamica della cultura».

Qual è la differenza tra fondamentalismo ed evangelicalismo? «Le due ortodossie hanno differenti ortoprassi; cioè, mentre evangelicalismo e fondamentalismo condividono le medesime proposizioni cognitive, essi praticano le loro credenze in modi così differenti che, per trovare ciò in cui essi veramente credono, si deve andare oltre le loro formulazioni dogmatiche ereditate.» La differenza tra evangelicals e fondamentalisti risiede proprio nel loro atteggiamento verso la cultura. H. Richard Niebuhr disse che gli evangelicals propendevano per un modello “Cristo che trasforma la cultura”. Essi si rivolgono alle maggioranze e danno loro un chiaro senso di minoranza. Jimmy Carter, Jesse Jackson ed altri evangelicals hanno reso evidente che una teologia conservatrice non indica affatto anche una politica conservatrice.

lunedì 29 giugno 2009

Andiamo in ferie, ci rivediamo a settembre!


Evangelizzazione e disciplina

1. la disciplina comunitaria è parte del processo di evangelizzazione.
Evangelizzazione e disciplina sono entrambi atti di discepolato. Il mandato missionario di Matteo include predicazione, battesimo, formazione e disciplina (in quest’ordine). Se la nostra comprensione dell’evangelizzazione è il processo di liberazione delle persone dai legami del peccato, e la loro integrazione nella comunione di Cristo in una vita responsabile, questo processo inizia con la predicazione e si conclude con l’edificazione di una comunità fedele. La prima parte si chiama catecumenato e ti porta al battesimo, la seconda si chiama discepolato e ti porta alla santificazione. Se le nostre chiese perdono la completezza e la direzionalità di questo processo, vagano sbattuti a destra e sinistra.

2. La disciplina appartiene all’essenza della chiesa quanto l’evangelizzazione.
Una chiesa che non disciplina la propria vita è una chiesa che non evangelizza. Qual è il punto di evangelizzare e aggiungere persone alla chiesa se l’essere parte della chiesa non ha senso a causa del fatto che appartenervi o non appartenervi non fa nessuna differenza? La vita nella chiesa deve essere qualitativamente diversa dalla vita fuori dalla chiesa, oppure l’invito a farne parte non ha ragione di essere.

lunedì 22 giugno 2009

L'evangelizzazione come iniziativa di Dio

Nella Bibbia Dio stabilisce patti con l’umanità, siano essi singoli o popoli. Il fattore fondamentale di questi patti è l’iniziativa di Dio. Dio si rivolge e si propone all’umanità. Questo concetto biblico è posto in contrasto con la libertà umana, che è sempre salvaguardata. Il contesto di questa polarità iniziativa di Dio/libertà umana è sempre il ristabilimento di una relazione spezzata, il portare di nuovo insieme persone che hanno vissuto separate. Si tratta di un invito alla comunione.
L’evangelizzazione va vista sotto questa prospettiva dell’iniziativa di Dio di rivolgere un invito alla comunione con lui e di stabilire un patto di riconciliazione. Ciò evidenzia l’urgenza del compito.

giovedì 18 giugno 2009

Gesù è la vocazione umana




L’incarnazione di Dio in Cristo non significa che Dio ha assunto la natura umana così com’è, dandole il sigillo d’approvazione e facendo così coincidere la natura umana con la rivelazione di Dio; ma al contrario, in Gesù, Dio ha dato una nuova definizione di ciò che è umano. Gesù è colui che rivela la vera natura e vocazione degli esseri umani.

sabato 6 giugno 2009

La "filiera" della fede

La nostra logica ci porta a considerare l’iter del credente in questa direzione: credere – comportarsi – appartenere. Devi prima credere a Gesù Cristo, poi devi dare dimostrazione della tua fede, in ultimo appartieni alla chiesa con tutti i diritti e i doveri attraverso il battesimo. Per molti questo è un dato coerente con la posizione battesimale biblica: ascolti l’evangelo e, in presenza della fede, ricevi il battesimo. Ma questo non è un comandamento.

Perché non pensare di sovvertire questo ordine invitando prima le persone a far parte della comunità, poi lasciando che le persone imparino ad agire da credenti vivendo nella comunità cristiana e solo alla fine chiedere – se la fede è davvero nata – il battesimo come sigillo dello Spirito? Appartenere – comportarsi – credere.

Bisogna dire che nelle chiese ciò di fatto già avviene. Ci sono persone nelle comunità che vivono per anni come “membri” di chiesa, che in chiesa ascoltano l’evangelo, imparano a credere e cominciano a vivere come cristiani in un processo virtuoso di maturazione e che alla fine chiedono di essere battezzate. Solo che oggi, questi credenti vivono in una specie di “limbo” che non è teologicamente definito, che non è regolamentato e che crea imbarazzo ad ogni assemblea di chiesa.

Da un punto di vista biblico non è vero che l’ascolto dell’evangelo avvenga nel vuoto; da un punto di vista teologico sappiamo che l’iniziazione alla vita cristiana è un processo; e dal punto di vista pratico rende la missione l’essenza stessa della vita della chiesa.

giovedì 28 maggio 2009

Non "andate" in chiesa, "siate" la chiesa

La chiesa è un luogo di crescita e di maturazione (Efesini 4:7-16). L’edificazione della chiesa corre di pari passo con la crescita e la maturazione spirituale dei credenti. Edificare la chiesa significa far maturare i credenti e far maturare i credenti significa edificare la chiesa.

La comunità deve essere immediatamente percepita come un ambiente sicuro, amichevole, incoraggiante e solidale, dove la gente impara non solo a diventare cristiano, ma anche a diventare più umana.
Tanto più ci si sente membra del Corpo di Cristo, tanto più diventa necessario stare con i fratelli, tanto più la chiesa è formativa tanto più si sentirà la necessità della crescita.

Un credente, prima di essere un “membro di chiesa” è un missionario (Oncken diceva: “ogni battista è un missionario”), e prima di “andare in chiesa” dovrebbe “andare nel mondo”.
Troppa parte delle energie delle chiese vengono spese nei programmi ecclesiastici e nello sforzo di contare teste la domenica mattina. Forse bisognerebbe puntare maggiormente sulla formazione missionaria del semplice credente: comprendere la cultura contemporanea, imparare un linguaggio per la missione, superare gli scogli alla testimonianza, avere occasioni di confronto comunitario sulla propria missione.
Offrire corsi sugli aspetti più difficili della testimonianza evangelica, come: “amare il proprio nemico”, “porgere l’altra guancia”, “consumare in modo responsabile”… cioè studi orientati alla messa in pratica della Bibbia. Per il resto dare tempo ai credenti per instaurare delle relazioni umane significative in famiglia, sul lavoro, a scuola, nello sport, sui luoghi di volontariato ed impegno.

venerdì 22 maggio 2009

In missione per conto di Dio

La chiesa partecipa alla missione di Cristo.
La missione di Cristo nel mondo non si è conclusa con la sua morte e risurrezione.

Attraverso il dono dello Spirito Santo, la storia di Gesù diventa l’evangelo della chiesa per il mondo (Moltman). La natura stessa della chiesa è determinata dall’evento della sua nascita a Pentecoste, cioè è determinata dalla sua origine nello Spirito
Se il grande mandato (Matteo 19:28) dà le istruzioni per la missione, Pentecoste ne dà la potenza.

La missione non è un optional, ma è la natura stessa della chiesa. «I cristiani non sono i consumatori finali del vangelo» (McLaren), esso è lo strumento escatologico con cui Dio attua il proprio disegno nel mondo, e la chiesa ne è una funzione.

La chiesa deve avere chiara la consapevolezza di avere una missione nel mondo. Se è vero che essa è messa a parte, lo è per poi incarnarsi nel mondo attraverso la sua missione. La chiesa pertanto è amica del mondo.
La chiesa che conosce il mondo attraverso la missione, lo conosce, lo vede e lo riconosce così come è stato voluto da Dio, anche se si è allontanato dal suo proposito divino. La missione scaturice dallo stesso amore che ha avuto Dio per il mondo (Giovanni 3:16) e dallo stesso spirito di sacrificio.

lunedì 18 maggio 2009

La cospirazione divina

Esiste una relazione tra la Chiesa e l’avvento del regno di Dio. Lo sfondo escatologico non può essere sottovalutato senza rendere il discorso cristiano insensato. Cristo è venuto a restaurare e a porre di nuovo sotto il regno di Dio il mondo separato da lui a causa del peccato. 1 Corinzi 15:24 dice che Cristo «consegnerà il regno nelle mani di Dio Padre». Cristo non consegnerà al Padre una chiesa completata, ma un Regno compiuto.
La chiesa non deve né costruire, né considerarsi quel Regno. Invece è chiamata a sperimentare e a esprimere quel Regno. Compie ciò non facendo cose “sante”, ma facendo le cose secolari secondo giustizia.
Esiste un solo mondo, ed è quello in cui gli uomini vivono come esseri sia materiali sia spirituali. La chiesa non ha un proprio spazio al di fuori del mondo, ma, come parte del mondo consapevole dell’opera di Cristo, è mandata nel mondo (“la cospirazione divina” secondo la felice espressione di Dallas Willard).

lunedì 11 maggio 2009

Spirito e spiritualità


Lo Spirito Santo è lo Spirito di Cristo. Lo Spirito Santo è lo Spirito del Signore Gesù Cristo crocifisso, morto, risuscitato e alla destra di Dio. I cristiani non hanno una esperienza spirituale di natura religiosa, ma esattamente una esperienza di Cristo di natura spirituale (come Paolo sulla via di Damasco).
Lo Spirito Santo fa crescere un solo frutto (Galati 5:22-23), non possiamo confonderci. Chi viene in contatto con noi deve vedere quel frutto, non un altro.
La spiritualità cristiana non è qualcosa che attiene all’interiorità umana («La risposta è dentro di voi, però è sbagliata!» dice giustamente Quèlo), ma qualcosa di determinato dalla presenza di Cristo nella nostra vita. La nostra spiritualità ci fa guardare fuori di noi. Nella nostra epoca di spiritualità senza fede, la chiesa deve esercitare questo “discernimento degli spiriti”.

lunedì 4 maggio 2009

Cristo presente nella comunità

Noi conosciamo Cristo alla luce di Pentecoste. Gesù Cristo non è un personaggio all’origine della nostra storia, ma è vivo e presente nella sua Chiesa odierna. Questo deve far parte costante della nostra predicazione, della coscienza dei credenti e della consapevolezza della comunità cristiana.
Gesù Cristo è nostro contemporaneo, la sua presenza deve essere avvertita da chiunque entra in contatto con la predicazione, la chiesa o il semplice credente.
Esiste ovviamente una continuità tra la persona storica di Gesù di Nazaret e il Cristo di Pentecoste. Non possiamo avere un Cristo senza avere anche Gesù di Nazaret, la vita e la predicazione di Gesù sono normativi per il credente e la chiesa. Però il Cristo che noi abbiamo conosciuto è quello messo in luce dallo Spirito a Pentecoste che ci rivela Dio come Padre di Gesù Cristo e Gesù Cristo come il Figlio del Padre.

sabato 11 aprile 2009

Un nuovo denominazionalismo?

Le denominazioni – così come sono oggi – sono ancora lo strumento adatto alle nuove sfide che le chiese hanno davanti? Io credo di no.

La grande domanda della società post-cristiana alla chiesa è: “con quale autorità?” E’ l’autorità della Chiesa? In questo essa ha già fallito gestendo il potere con autoritarismo. E’ l’autorità delle Scritture? In questo essa ha già fallito con gli atteggiamenti neo-fondamentalisti. E’ l’ortodossia dottrinale? In questo essa ha già fallito con l’incapacità di parlare alla società reale. La società occidentale post-cristiana vuole vedere segni di integrità, comunità e credenti la cui autorevolezza si renda evidente dalla congruità di fede e vita. Non c’è nessuna fiducia data al nome di una denominazione, alla sua storia, alla sua generica presa di posizione sociale. Ciò che conta sono le persone e le comunità.

In questa visione, le chiese tornano ad essere comunità del Regno, non nel senso che lo costruiscono, ma nel senso che lo vivono. Le chiese evangeliche del terzo millennio sono consapevoli di essere comunità distinte dal mondo, ma incarnate in esso attraverso un senso profondo della missione. Essere chiese missionarie non significa più sostenere le missioni, ma avere una missione, essere in missione.
In questa visione, i credenti non sono membri di chiesa, ma “cittadini del Regno” impegnati in prima persona nella missione della chiesa esattamente nel luogo dove sono.
In questa visione, i pastori non sono né parroci, né vescovi, ma apostoli. Apostolo significa che egli è il leader della comunità, che ha la visione della testimonianza della comunità, che organizza la chiesa, che prepara la leadership e i membri alla missione. L’apostolo ha l’autorevolezza del vangelo che predica.
In questa visione, la denominazione, nell'epoca di Internet, è piuttosto il network. La comunità delle comunità in missione. Ossia comunità apostoliche profondamente legate al territorio, autarchiche sul piano della testimonianza, interconnesse sulla base della conversazione teologica, della condivisione delle esperienze e della comunanza degli obiettivi. Questa è la forma extra-light di denominazionalismo che sembra profilarsi. Le chiese non si concepiscono più in base ai loro rapporti economici ed amministrativi o in base a una pretesa omogeneità teologica.

La denominazione diventa sempre più: 1) La comunione delle comunità in missione che agisce sul piano dell’incoraggiamento, dell’entusiasmo, dello scambio di idee e di visione. 2) La struttura di servizio alla missione delle chiese che agisce sul piano della formazione e del reperimento “nella rete” delle competenze utili per le comunità. 3) Il motore della transizione dall’attuale forma alla futura, perché non tutte le chiese si trovano allo stesso punto di acquisizione della nuova realtà. La politica denominazionale è di diventare il contesto della crescita delle chiese, l’humus nel quale ciò che si semina cresce.

giovedì 29 gennaio 2009

Fondamentalisti e liberali, la differenza che NON c'è

Oggi, in seno al cristianesimo, ci sono due modi di pensare la fede che sono contrapposti ed antagonisti, spesso con scarsissimo amore cristiano: quello fondamentalista e quello liberale. Nessuno dei due si riconosce nell’etichetta che gli viene affibbiata dall’altro, ma siccome non si ascoltano, non cambiano. I due gruppi hanno una immagine stereotipata dell’altro e molto di ciò che si dicono viene più dallo spirito di giudizio che da quello di verità. Entrambi pensano di essere inesorabilmente distanti dagli altri, ma ciò non è completamente vero.

I fondamentalisti sono ossessionati dal problema della salvezza e, secondo loro, tutto si risolve “nell’accettare Gesù”. Questa frase significa che tu devi credere e dire che Gesù è morto sulla croce per il tuo peccato e che è risorto per la tua salvezza. Questa affermazione, detta con sincerità, ti salva. Nessun atto di ubbidienza è veramente necessario, neppure il primo e più ovvio: il battesimo. L’ubbidienza è importante, buona e richiesta, ma non è necessaria alla salvezza. La Bibbia infatti afferma che noi siamo salvati per grazia mediante la fede e non per merito mediante le opere.

Perché questo discorso, impeccabile dal punto di vista biblico, ci suona strano? Perché, come leggevo in un libro, Dio viene concepito come un lettore di codici a barre, di quelli che fanno “biip” quando leggono l’etichetta del prodotto e lo mettono in conto. Il lettore di codici a barre non si interessa di che cosa c’è nella confezione, gli importa solo di mettere in conto il prodotto. Se metti il codice a barre delle mele sulla busta delle pere, ti metterà in conto le mele anche se porti a casa le pere. Possibile che Dio si preoccupi solo di metterci in conto la sua giustizia appena pronunciamo la confessione della fede senza interessarsi del fatto che diventiamo discepoli? Il discorso sembra strano perché ci pare offenda l’intelligenza di Dio.

I liberali sono invece ossessionati dalla giustizia sociale e, secondo loro, il cristianesimo consiste nel lottare per la giustizia. Lottare per la giustizia significa essere dalla parte dei minimi e dei diseredati del mondo, difendere l’integrità del Creato e operare per la pace. Questa lotta non solo rappresenta una ubbidienza radicale e redentiva a Dio, ma incarna la natura più inerente di Dio: l’amore. Ogni altro aspetto della vita di fede è relativo e secondario perché Dio è amore.

Non vi sembra che a questo discorso manchi qualcosa? L’impressione viene dal fatto che in questo discorso manca la relazione con Dio. Dio da questo discorso è assente o, più precisamente, è alla sua origine, ne è solamente il principio. Ciò che rimane alla persona di fede è il suo impegno nel mondo. La fede corrisponde all’impegno sociale, la fede è l’impegno sociale. Possibile che Dio ci chieda esclusivamente di lottare per la giustizia, come può fare qualunque persona di buona volontà, senza chiederci di diventare suoi discepoli? Il discorso ci pare strano perché estromette Dio dalla sua relazione con il mondo.

Fondamentalisti e liberali hanno una radice comune, e questa radice è la fede staccata dalla vita. Nessuno dei due chiede al credente una vita di discepolato, la ritengono non strettamente necessaria: gli uni per la salvezza, gli altri per la lotta per la giustizia. Ma nella Bibbia è importante la salvezza ed è importante la lotta per la giustizia, la pace e il creato; però queste sono conseguenze di una cosa molto più importante, il nostro essere discepoli di Gesù. E’ diventare cittadini del Regno di Dio che veramente conta, questo salva noi e libera il mondo!

giovedì 22 gennaio 2009

Marco 1:15 - Una vita di qualità eterna

Il motivo della fede cristiana e di tutto ciò che comporta sta nella predicazione di Gesù: «Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino; ravvedetevi e credete al vangelo». Il regno di Dio è vicino, ecco a che serve la fede cristiana.

Il Regno di Dio è un concetto “escatologico”. Escatologico significa semplicemente che riguarda il piano eterno di Dio e non solamente il piano storico umano. Il piano umano è all’interno del piano di Dio, il piano storico è dentro il piano eterno. Quello che succede “in cielo” ha un riflesso “sulla terra” e di conseguenza tutto quello che accade nel mondo non è altro che un effetto di ciò che accade in cielo.
C’è una storia di Dio che precede la storia umana e molti versetti ci fanno capire che Dio è all’opera da prima della storia umana e che il compimento della sua opera avverrà dopo la storia umana. Quindi c’è una storia di Dio che è più ampia di quella umana che vediamo qui.

Nella Bibbia c’è un grande movimento che parte da Dio, coinvolge la storia degli uomini e delle donne e ritorna a Dio. Un po’ come nel profeta Isaia dove la Parola di Dio viene mandata nel mondo e non ritorna a Dio prima che non abbia compiuto il proposito per il quale era stata mandata. O come nel prologo di Giovanni dove Cristo, il Verbo di Dio, procede dal Padre, viene nel mondo incarnandosi nel Figlio e torna al Padre. Questo movimento trova il suo compimento in Cristo. Cristo è all’origine del piano di Dio («prima della creazione del mondo Dio ci ha scelti per mezzo di Cristo»), Cristo è al centro del piano di Dio («perché Cristo è morto per noi») e Cristo è al compimento del piano di Dio («Dio... riunisce tutte le cose... sotto un unico capo, Cristo»).

Ciò che si vuole sottolineare qui è che il piano di Dio non può essere messo in crisi, non corre alcun pericolo di essere contrastato, sovrastato o vinto. La salvezza non dipende dalle circostanze contingenti, storiche o temporali, ma dallo stabile amore di Dio. Tutto è già nelle mani di Dio. Non c’è nessuna catastrofe naturale, non c’è nessun fallimento della storia, non c’è nessuna infedeltà umana che potranno mai mettere in crisi la volontà salvifica di Dio. Questo è il fondamento della certezza della nostra fede.

Con questa premessa escatologica, la questione del regno di Dio è più chiara, perché reinserita nel suo contesto. Quindi, che cos’è il regno di Dio?
Potremmo dire che il Regno è l’effettivo raggio d’azione della volontà di Dio, l’ambito nel quale ciò che egli vuole viene effettivamente fatto. Esso quindi non è tanto un luogo (come la Gran Bretagna è il Regno Unito), piuttosto è l’estensione del potere effettivo del re (come gli Inglesi sono sudditi di Sua Maestà la Regina d’Inghilterra), nel senso che sono tenuti ad osservare le leggi di quel regno. Il Regno di Dio è la sfera di influenza di Dio nel mondo, è il popolo di coloro che egli si è acquistati, di quelli che lo riconoscono come loro Signore e che fanno la sua volontà. Quindi, sono parte del Regno di Dio tutti quelli che seguono la sua legge, che vivono secondo la sua volontà. In questo senso, il Regno è già presente nel mondo e lo si può raggiungere. Il senso della predicazione del Regno sta proprio qui: il regno di Dio è vicino, cioè c’è una nuova accessibilità a questo regno attraverso Gesù Cristo.
Il regno di Dio non è qualcosa di essenzialmente sociale o politico, anzi, proprio l’ambito sociale e politico, insieme all’ambito del cuore dell’uomo, sono gli unici luoghi della creazione dove al Regno e alla volontà di Dio è permesso di essere assenti. L’ambito sociale e politico sono proprio quel “in terra” dove chiediamo che la sua volontà sia fatta, che nel Padre nostro è contrapposto a “in cielo” dove la sua volontà è semplicemente fatta da sempre. Allo stesso modo, al contrario di quello che si può intendere ad una lettura superficiale del NT, il Regno non è qualcosa che è fondamentalmente e primariamente nel cuore dell’uomo, come se fosse qualcosa di puramente interiore che non riguarda la creazione e la storia umana; il regno di Dio deve prendere controllo dei cuori umani e dell’ambito sociale e politico.

L’affermazione contenuta nell’annuncio del Regno da parte di Gesù è: «Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino; ravvedetevi e credete al vangelo». Ciò significa che la nostra vita acquista già ora una qualità eterna. Il regno di Dio e la qualità della vita che comporta è ora accessibile grazie a Gesù Cristo che ha posto questo seme inestirpabile nel mondo. Dio ci concede ora una caparra del suo Regno. Questo significa che “il Regno è vicino”.

Quindi, cari fratelli e sorelle, all’interno del regno di Dio così inteso, cioè nell’ambito dove la signoria di Dio è riconosciuta e rispettata e la sua volontà conosciuta e fatta, è disponibile un tipo di vita che ha già la qualità della vita eterna.
L’ubbidienza è così la dimostrazione della nostra scelta di campo. L’ubbidienza non va considerata solamente dal punto di vista dei nostri sforzi e delle nostre rinunce, ma anche dal punto di vista del Regno. Ciò in due sensi:
Nel senso che l’ubbidienza è il nostro vivere già secondo le regole del regno di Dio, e quindi è una anticipazione della vita eterna
Nel senso che nel regno, le nostre opere diventano parte della storia eterna di Dio, del piano di salvezza di Dio. Noi siamo parte della “cospirazione divina”.
In una frase: noi siamo i portatori del Regno vicino di Dio.

lunedì 12 gennaio 2009

Galati 5:1 - La gloriosa libertà dei figli di Dio

La libertà è importante perché essa ci definisce, determina ogni aspetto della vita.
Due atteggiamenti cristiani mi spaventano, uno è quello molto tipico nelle nostre chiese evangeliche storiche: “io sono libero, quindi posso fare quello che voglio nella vita e nella chiesa. Gli altri possono plaudere se sono d’accordo, ma se non lo sono, devono rispettare la mia libertà.” Secondo costoro i non credenti devono capire che la libertà cristiana è esattamente il comportarsi secondo gli standard più bassi del mondo; e i credenti devono mandare giù qualsiasi schifezza perché si tratta della libertà cristiana.

Il secondo atteggiamento spaventoso è quello più tipico nelle chiese evangeliche conservatrici: “io sono libero in Cristo, però non so vivere in questa libertà e ho paura di sbagliare. Ho paura dei miei desideri più profondi, dubito perciò della mia conversione; ho paura della disciplina della chiesa, quindi tengo nascoste alcune mie “cosette”; sono incerto nelle scelte, ho quindi bisogno delle regole; vorrei concedermi di più, ma è peccato.” Secondo costoro i credenti, per vivere coerentemente, devono sentirsi osservati e i non credenti devono imparare la subordinazione.
Siamo stretti tra l’arroganza dei primi e l’ansia dei secondi.
Il discorso sulla libertà deve quindi essere in cima alle nostre priorità perché l’incontro con Dio porta sempre con sé una liberazione e non può e non deve creare questi mostri (anzi, l’incontro con Dio è esattamente l’evento della liberazione), quindi: 1) noi dobbiamo essere persone libere e questa libertà si deve vedere; 2) la libertà deve essere l’effetto della nostra missione, ne devono perciò uscire persone libere; e 3) il vivere nella libertà deve essere il nostro compito comunitario, la comunità cristiana è la comunità libera delle persone libere.

Parlare di libertà è estremamente difficile. E’ difficile dire qualcosa di intelligente su un argomento che ha impegnato le migliori menti di tutta la storia in tutto il mondo le cui riflessioni riempiono migliaia di scaffali nelle biblioteche. Però vorrei fare una brevissima considerazione sul piano biblico che a mio avviso ci potrebbe essere molto utile.
In che cosa consiste la libertà?
Molte possono essere le risposte, ma la risposta biblica è che la libertà consiste nella liberazione dalla disperazione.
Sapete perché? Perché – questo lo sappiamo tutti – nella vita qualunque cosa può impedirci di realizzare ciò che vogliamo, anche le cose più naturali e buone. Non siamo veramente liberi perché non possiamo realizzare ciò che vogliamo. Sono davvero libero se non sono in grado di realizzare la mia vita? Quanto sono importanti i miei obiettivi nella realizzazione della mia vita? Quando posso dire di aver realizzato la mia vita? La libertà è liberazione da questo tipo di disperazione. In questo senso la libertà è la stessa cosa che la speranza e anzi, la liberazione dell’incontro con Cristo consiste proprio nell’immissione della speranza cristiana nel circolo della vita. La libertà è quindi fondamentalmente un dono, essa non può venire da noi stessi, non la possiamo conquistare e non la possiamo costruire. Deve venire da fuori di noi.
Ora voi capite quanto questa questione della libertà sia importante per la felicità della gente. Per la nostra felicità e per quella di coloro che vogliamo raggiungere, in amicizia, con il messaggio dell’Evangelo. La libertà è un aspetto fondamentale della nostra testimonianza.

Il NT parla della libertà rispondendo a due equivoci:
Il primo equivoco è definito da questa fase: «Noi siamo già liberi». Questo argomento si trova nel vangelo di Giovanni: «Gesù allora disse a quei Giudei che avevano creduto in lui: «Se perseverate nella mia parola, siete veramente miei discepoli; conoscerete la verità e la verità vi farà liberi». Essi gli risposero: «Noi siamo discendenti d'Abraamo, e non siamo mai stati schiavi di nessuno; come puoi tu dire: "Voi diverrete liberi"?» Quindi, alcuni Giudei che hanno creduto obiettano a Gesù – che dice loro che sarà la verità a renderli liberi – che in verità loro, in quanto figli di Abramo, non sono mai stati schiavi di nessuno e che quindi sono sempre stati liberi. Gesù risponde così a questa obiezione: «Se dunque il Figlio vi farà liberi, sarete veramente liberi.» (8:36) come per dire: “non è la vostra origine in Abramo che vi rende liberi, ma la vostra fede in me”.
Io chiamerei l’atteggiamento di quelli che dicono «Noi siamo già liberi» il voler disperatamente essere se stessi. E’ un discorso molto comune: “la mia origine e il mio destino sono in me stesso”. Dov’è che trovo la mia identità? In me stesso! Nelle mie origini e nel mio destino ultimo. Quindi nel mio rimanere legato a me stesso, al mio popolo, alle mie tradizioni. Io sono veramente libero se mi comporto secondo la mia natura. Realizzo me stesso quando raggiungo ciò che sono.
A questo Gesù risponde così: “Voi sarete liberi quando vi farete liberare da me”.
1. La vera libertà può venire solo da una nuova nascita. La vera libertà consiste nel riconoscere la propria origine in Dio e il proprio destino nella vita eterna, che nel NT viene chiamato “nascere di nuovo”: «Non ti meravigliare se ti ho detto: “Bisogna che nasciate di nuovo”. Il vento soffia dove vuole, e tu ne odi il rumore, ma non sai né da dove viene né dove va; così è di chiunque è nato dallo Spirito». Rinascere con una nuova origine e un nuovo destino. Tutti noi conosciamo la nostra origine e il nostro destino: la nostra origine sono i nostri genitori e il nostro destino è la morte, ma la libertà che è propria dello Spirito si riscontra solo in chi è nato dallo Spirito. Diversa origine + diverso destino = libertà (La tua attuale origine e il tuo attuale destino non ti rendono e non ti possono rendere libero).
2. La libertà è un effetto della verità. La libertà è la risultante di una concatenazione di conseguenze. Chi crede in Cristo e dimora nella sua parola conosce la verità e a chi conosce la verità, la verità lo renderà libero. La verità che ha in testa il NT, però, non è un concetto, una idea o un fatto indiscutibile, ma è Gesù stesso: «Io sono la via, la verità e la vita.» Voi sarete liberi quando crederete a Gesù come la verità di Dio; e ciò che la verità impersonificata in Gesù compirà sulla croce vi farà liberi. Non si tratta della discendenza di Abramo, ma della verità di Gesù.
3. La libertà è libertà dal giudizio. Se voi pensate di essere liberi perché siete discendenti di Abramo, cioè anche senza o prima della verità di Gesù, siete degli increduli; anzi, vi vaccinate contro Gesù (bravo questo Gesù, le cose che dice sono belle e profonde e io le condivido!) e perciò siete impossibilitati ad accogliere il dono di Dio che è in Cristo. Che cos’è questa impossibilità di credere in Gesù se non un giudizio (le porte della salvezza rimangono inesorabilmente chiuse e la vostra vita rimane inesorabilmente nelle vostre mani): vediamo cosa sei capace di fare da solo! Voi siete sotto un giudizio divino che riguarda non la vostra moralità, ma riguarda a chi avete affidato la vostra vita.
4. La libertà è libertà dalla morte. La morte è il limite più ovvio della libertà umana, tanto ovvio da non essere spesso considerata. La Bibbia chiama “vita eterna” quella vita che ha la caratteristica della libertà per eccellenza, libera dal destino di tutti, cioè la vita libera dalla morte. Se voi avete in voi stessi questa fiducia in Dio la vostra vita cambierà di qualità.
Insomma, il discorso di Gesù è che chi fonda la sua vita su se stesso è destinato alla disperazione. Costui pensa di poter vivere liberamente, ma non può liberarsi dei propri limiti e quella che sperimenta non è la libertà, ma la schiavitù a se stesso. E’ libero invece chi è nato di nuovo, è libero chi conosce la verità, è libero chi non è giudicato da nessuno, è libero chi sa di avere la vita eterna. In una parola: è libero chi crede in Gesù.

Il secondo equivoco è definito da questa fase: «Noi non siamo ancora liberi». Questo argomento si trova nella lettera ai Galati, dove l’apostolo Paolo è costretto ad ammonire i credenti: «non vi lasciate porre di nuovo sotto il giogo della schiavitù.» Il problema è sostanzialmente quello della circoncisione. Alcuni cristiani di origine ebraica pretendono che i cristiani di origine pagana vengano circoncisi. Essere circoncisi ha due significati: primo, i cristiani devono continuare ad essere sottoposti alla Legge dell’AT; secondo, i cristiani devono far parte del popolo d’Israele. Per Paolo credere questo è equivalente a dire che la morte e la resurrezione di Cristo non hanno avuto alcun significato, perciò risponde: «Cristo ci ha liberati perché fossimo liberi», come per dire: “Cristo ci ha liberati per farci vivere da persone libere, se noi ci andiamo a cercare nuove schiavitù Cristo non ti servirà a nulla”.
Io chiamerei l’atteggiamento di questi che dicono: «Noi non siamo ancora liberi» il non voler disperatamente essere se stessi. Dobbiamo seguire una legge, dobbiamo appartenere a qualcosa! Hanno paura della libertà, essa è per loro una condizione instabile, insicura, che crea incertezza, potenzialmente pericolosa. Per questo hanno bisogno di ritornare subito alle regole, alle spiegazioni letterali, alle interpretazioni autentiche, alle appartenenze, ai luoghi comuni.
Noi potremmo descrivere la risposta dell’apostolo Paolo a questa paura della libertà con questa frase: “Voi appartenete alla libertà”. L’idea di Paolo infatti è che la libertà di Cristo avviene allo stesso modo del passaggio di uno schiavo da un proprietario all’altro. Prima eri schiavo del peccato, ora di Gesù; prima eri schiavo di te stesso, ora sei schiavo della giustizia; prima dovevi offrire le tue membra al peccato, ora le devi offrire alla giustizia; prima portavi un frutto di cui oggi ti vergogni, ora porti il frutto della santificazione; prima eri destinato alla morte, ora sei destinato alla vita.

La libertà quindi è una possibilità che ha portato Gesù Cristo, possibilità concepita da Dio prima di tutti i tempi e realizzata in Cristo Gesù. “Tu sei stato acquistato, sei di Cristo e quindi sei perfettamente libero”. Quello che devi fare è vivere questa tua libertà, senza remore, senza paure, senza ansie.
La libertà è un effetto della fede e questa consiste in una vita vissuta nella fiducia di Dio. Questa fiducia toglie la disperazione dell’incertezza della vita che ti spinge a non voler essere te stesso e a nasconderti dietro la legge, il popolo, le prescrizioni.
Effettivamente la libertà cristiana non è il “faccio quello che voglio”, ma è un asservimento alla giustizia. Da schiavi di se stessi e del peccato si diventa schiavi di Cristo e della giustizia. Ma solo sotto questa schiavitù io sono perfettamente libero. La libertà non è adeguarmi alla mia natura, ma adeguarmi a Cristo. Lì trovo la mia vera identità, lì trovo la mia responsabilità di uomo, di donna (che è un’altra cosa che il fondare la propria vita su di sé, si tratta di assumersi le proprie responsabilità da uomo libero).
Non devi vivere nella disperazione di non poter essere libero (per le paure, per le ansie, per le regole) ma nella serenità della fede, di chi accetta la grazia immeritata e vive della fiducia verso la fedeltà di Dio semplicemente perché sa che gli appartiene.

Sul piano soggettivo la Bibbia ti propone (questo è il nostro messaggio):
1. Lasciati giudicare. Cioè diventa consapevole della tua situazione. Rifletti profondamente sulla realtà della tua vita. Sei davvero libero se non sei in grado di realizzare pienamente la tua vita, se non riesci ad essere l’uomo o la donna che dovresti essere e che vorresti essere? Il risultato del giudizio di Dio in Cristo non è la condanna, ma la consapevolezza; lasciati giudicare!
2. Accetta di essere liberato. Cioè rinuncia all’affermazione di te. Quanto sono importanti i tuoi obiettivi nella realizzazione della tua vita? Quanto costa agli altri la tua auto-affermazione? E quanto costa a te in termini di affanno! Ammetti che la tua libertà non viene da te, ma viene dalla verità che hai conosciuto in Cristo e che magari ha anche cambiato i tuoi obiettivi di vita.
3. Vivi una vita di fiducia in Dio. Cioè abbi fede! Accetta allora la responsabilità di essere te stesso; assumi il tuo compito di uomo, di donna libera che prende decisioni libere da sé e dagli altri. Su di te non c’è nessun giudizio, nessuna condanna, nessuna legge e perciò nessuna ansia, nessuna incertezza, nessuna paura. Arriva alla fine della tua vita potendo dire: “Ho realizzato la mia vita perché l’ho vissuta da uomo libero e questo non grazie a me, ma grazie a Gesù Cristo”.
4. Nasci di nuovo. Vivi cioè come una nuova creatura che ha origine in Dio e il cui destino è nella vita eterna. Perché solo coloro che sono nati dallo Spirito sono liberi come lo Spirito!

martedì 6 gennaio 2009

Filippesi 4:4 - La disciplina della gioia

Uno potrebbe chiedersi: “Ma cosa c’è da rallegrarsi?”

Eppure, l’apostolo Paolo, quando esorta i filippesi a rallegrarsi, era in prigione.
Non solo, ma non sapeva neppure se ne sarebbe mai uscito vivo. Inoltre, la comunità di Filippi era nei guai, la chiesa rischiava di spaccarsi e Paolo era per questo in ansia. Tutta la lettera è pervasa da un profondo senso di preoccupazione e di solitudine. Paolo stesso chiama il suo un «tempo di tribolazione» (che secondo l’idea di Paolo stesso è esattamente il concetto contrario all’allegrezza).
E allora, come mai Paolo, che riconosce di vivere in un tempo di tribolazione, esorta i filippesi a rallegrarsi? Si può vivere in un tempo di tribolazione ed essere ugualmente allegri? Si può essere in ansia e allegri nello stesso tempo? Possiamo noi, che viviamo tutta l’ansia di un tempo incerto, di recessione economica, di incertezza per il futuro, essere ugualmente allegri? Possono oggi i cristiani mostrare allegrezza in una società ansiogena? Si può predicare l’allegrezza in un tempo difficile come il nostro senza essere offensivi, provocatori, ingenui, ipocriti o insinceri?

Io sono convinto che la fede cristiana, per avere senso, deve essere gioiosa. Questo non significa che la fede consiste solo nella gioia, ma certamente che la gioia è un aspetto cruciale della fede. Appunto, la fede senza gioia è triste, perché una persona dovrebbe diventare cristiana per essere triste? Quando la gioia viene esclusa dall’esperienza di fede, questa viene corrotta e diventa qualcosa di sostanzialmente diversa da quello che la Bibbia ci dice debba essere.

Quali motivi porta la Bibbia per giustificare questa richiesta di gioia?
Avrete notato che l’apostolo Paolo scrive: «Rallegratevi!» Quel “rallegratevi” è un verbo all’imperativo, il verbo degli ordini, dei comandamenti. Come si fa ad obbligarsi ad essere allegri se la mia vita non me ne dà le ragioni? Come si fa ad ubbidire ad un comandamento come questo senza essere finti!? Il fatto è che anche la gioia è una disciplina spirituale. Tradizionalmente la gioia è considerata una disciplina spirituale comunitaria, quindi, la gioia non è qualcosa né di interiore, né di esteriore, ma riguarda la sfera comunitaria; la gioia non è un sentimento che viene da dentro di noi o che dipende da qualche circostanza esterna. Perciò, la gioia bisogna impararla e praticarla

Il primo motivo per cui la gioia è possibile è il ritorno del Signore. L’evangelo porta con sé il messaggio fondamentale che “il Signore Gesù viene”. Che si tratti dell’incontro dell’uomo con la Parola di Dio che conduce alla fede, o dell’incontro dell’individuo con Gesù che porta alla salvezza, o dell’incarnazione della parola di Dio in Gesù di Nazareth che fa entrare Dio nella storia umana, o della promessa dell’avvento del Regno di Dio, tutta la Bibbia è pervasa da questa dimensione della necessità e dell’urgenza che Dio venga, e venga presto. Il ritorno del Signore è l’aspirazione fondamentale del credente che attende la trasformazione del mondo nel regno di Dio; che attende il ritorno di Cristo che porti quella giustizia che noi non sappiamo realizzare, quella pace che noi non sappiamo costruire, quella serenità che noi non sappiamo darci. L’invocazione più pregnante e profonda del Nuovo Testamento è Maran-atà, Signore vieni! L’allegrezza predicata da Paolo trova il suo fondamento e il suo senso nel ritorno del Signore: «Rallegratevi … il Signore è vicino!». E’ proprio quando ogni illusione sulle possibilità umane di salvare il mondo crolla che può emergere finalmente la speranza nell’opera di Dio. E’ proprio perché si è certi della promessa che Gesù Cristo ritornerà per portare il suo Regno che ci si può misurare con la realtà del male e della sofferenza, senza illudersi di poterli debellare, ma senza neppure arrendersi ad essi. L’allegrezza non è spensieratezza, ma speranza. Il ritorno di Cristo porta la gioia della speranza.

Il secondo motivo per cui la gioia è possibile è l’amore di Dio. Gesù ha portato nel mondo una nuova qualità di amore. L’amore convenzionale, quello che tutti noi conosciamo, è suscitato dalle qualità della persona amata: la bellezza, la virilità, la simpatia, le doti del carattere, la cultura … L’amore portato da Cristo era evidentemente verso coloro che non avevano nessuna qualità di amabilità. Peccatori, samaritani, matti, collettori delle tasse, soldati romani. L’amore di Cristo era una iniziativa di Dio, una apertura di credito, qualcosa che dipendeva da chi ama, un dono. La scoperta di essere amati è una esperienza che trasforma l’esistenza, questo, in qualche modo, lo abbiamo sperimentato tutti, non solo vedere che esiste qualcuno che ti cerca e ti desidera, ma anche qualcuno che ti stima che cerca il tuo parere o la tua compagnia. Sentire L’amore abbatte la paura, scioglie i sensi di colpa, cancella la tristezza, annulla il senso di indegnità che ci portiamo dentro. Paolo dice: «Dio invece mostra la grandezza del proprio amore per noi in questo: che, mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi.» Cristo ci ha mostrato un amore che non dipendeva da noi, ma solo da lui. Questo amore dona la gioia del sentirsi amati.

Il terzo motivo per cui la gioia è possibile è la pace con Dio. Paolo dice: «Giustificati dunque per fede, abbiamo pace con Dio per mezzo di Gesù Cristo, nostro Signore.» Il risultato dell’opera di Cristo è la pace con Dio. E’ quando noi incontriamo qualcuno che si rivolge a noi con accettazione e apprezzamento che sperimentiamo la nostra umanità; lo schiavo non percepisce di essere un essere umano alla pari del suo padrone. L’intenzione di Dio è stata proprio quella di ricostituire un rapporto umano spezzato. Questo significa che per noi cristiani la vita non è qualcosa di neutro, che può essere buona o cattiva a secondo delle circostanze. Al contrario per noi la vita è di per sé un dono di Dio, una benedizione, un esito dell’amore di Dio. Questo non significa che dobbiamo fare finta che la realtà della sofferenza, del male e delle difficoltà della vita non ci tocchino anzi, al contrario ci rendono più attenti al fatto che tutto ciò esiste ed è contrario al progetto di Dio. Il progetto di Dio è affermato in Genesi 1:31 «Dio vide tutto quello che aveva fatto, ed ecco, era molto buono.» I cristiani credono alla realtà del peccato. Sanno che peccato significa che la relazione corretta con Dio è stata lacerata e la pace con Dio ci è stata tolta e che le ragioni di gioia ci sono state sottratte. Ma la nostra gioia deriva dal fatto che Dio ha rimosso il peccato e ci ha restituito la pace con lui e con essa ci ha restituito le ragioni della gioia. E deriva anche dalla consapevolezza che la creazione è fondamentalmente buona e destinata alla salvezza. La pace con Dio porta la gioia di una relazione ritrovata.