lunedì 1 ottobre 2007

Pluralismo e radicalismi

Oggi viviamo nella società pluralista. Il pluralismo è il modello sociale adottato in Occidente per permettere alle società multiculturali odierne di vivere pacificamente.
Le diverse culture, anche a causa della modalità e della celerità con la quale sono venute a stretto contatto od obbligate alla convivenza, sono divenute ostili, potenzialmente antagoniste; spesso vivono in tensione tra loro, qualche volta la convivenza sfocia nel conflitto. Per raggiungere il suo obiettivo di convivenza pacifica, la società pluralista protegge un limitato numero di valori condivisi lasciando a ciascuna cultura la libertà di esprimere i propri.
Ciascuno vive con questi due insiemi di valori, quelli comuni e quelli specifici. In questa visione, dal punto di vista sociale il problema da risolvere è la convivenza pacifica di culture potenzialmente antagoniste, dal punto di vista delle singole culture il problema è di mantenere la propria identità di gruppo.

La neutralità verso le culture specifiche è il grande valore fondante della società pluralistica, ma questa neutralità, una volta accettata, spinge le culture specifiche alla conformità e alla conseguente perdita di identità.
La neutralità diventa un valore, inculcato dalla scuola e dai mass-media, che viene importato all’interno delle culture specifiche. Quando la specificità di una cultura non è accuratamente definita e vissuta dal gruppo stesso, rischia di venire risucchiata in pratiche che da un lato sono socialmente compatibili in virtù dell’omologazione al minimo comune denominatore sociale, ma che dall’altro contraddicono la cultura di appartenenza e alla fine la snaturano.

Forse l’esplodere del fenomeno fondamentalista, gli integrismi e i radicalismi, i “ritorni” e le “riscoperte”, i “movimenti”, che affliggono tutte religioni, sono una risposta alla paura di divenire insignificanti sul piano sociale o di scomparire su quello storico.

Ciò avviene quando anche i credenti interiorizzano il grande dogma laicista che la fede appartenga alla sfera della vita privata, approvando l’affrettato assioma che le religioni hanno un elevato potenziale di conflittualità. Ciò è del tutto superficiale, perché le fedi diventano nocive alla società non quando i loro membri rimangono fedeli ai propri principi, ma quando le loro istituzioni religiose cercano il controllo delle istituzioni sociali per modificarne, a loro vantaggio, l’orientamento pluralista.

Al contrario, una cultura ben definita, riesce ad assumere lealmente per sé i valori laici condivisi rimanendo nello stesso tempo una voce chiara e libera (noi diremmo profetica) nella società. Noi cristiani occidentali, volenti o nolenti, siamo già integrati nella società attraverso le istituzioni politiche, il lavoro e l’informazione; il nostro compito non è semplicemente quello di diluirci in essa, ma di diventarne la parte profetica.

Se la scelta di fedeltà al Signore non vuole significare semplicemente seguire la via dell’abbandono del mondo, l’altra strada praticabile è quella di assumersi il rischio di vivere in un mondo ormai ostile, traendo la propria forza dalla comunità alla quale si appartiene (ascesi intramondana).

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